Corruzione e povertà dilagano nella capitale romena. Dove tutto si compra a suon di mazzette. E dove la transizione post Ceausescu sembra non arrivare mai. Tutto, dalla sanità , alle pensioni, ai concorsi ha un prezzo da pagare. Soprattutto nella politica che tra ricorsi, referendum contestati e arresti ha trasformato la situazione istituzionale in una crisi dai toni pittoreschi
Corruzione e povertà dilagano nella capitale romena. Dove tutto si compra a suon di mazzette. E dove la transizione post Ceausescu sembra non arrivare mai. Tutto, dalla sanità , alle pensioni, ai concorsi ha un prezzo da pagare. Soprattutto nella politica che tra ricorsi, referendum contestati e arresti ha trasformato la situazione istituzionale in una crisi dai toni pittoreschi
BUCAREST.LA ROMANIA è piena di banche e di chiese, come l’Italia. Ma è soprattutto piena di farmacie e di Case de amanet, banchi dei pegni. Innumerevoli farmacie, a pochi metri l’una dall’altra: non è un buon segno. La durata media della vita è di otto anni più bassa di quella italiana. La gente non si cura e rincorre i malanni con le medicine. Le ricette valgono per tre mesi: nel mese della prescrizione e dell’acquisto si tira di più la cinghia. Molti medici e infermieri emigrano, nella sanità la corruzione è capillare. Le paghe sono irrisorie, le pensioni derisorie. L’altro ieri hanno arrestato un ginecologo perché aveva chiesto per un parto troppo più della mancia corrente, e i genitori l’hanno denunciato: eccesso di corruzione. I pazienti si presentano all’ospedale con gli infimi gruzzoletti destinati a ciascuno, accettazione, infermiere, portantino, medico, fino all’anestesista aspettato su una barella dall’operando nudo che tiene stretti i suoi lei nella mano, prima di addormentarsi. Come il morto antico, cui si metteva l’obolo sotto la lingua per pagare il traghettatore.Per un mese, a gennaio scorso, in una Bucarest stretta nel gelo e altrove, ci furono manifestazioni di protesta di pensionati, lavoratori, giovani, tifoserie, e perfino la polizia si schierò dalla loro davanti al palazzo presidenziale. A far traboccare il vaso era stata la decisione governativa di privatizzare l’unico servizio efficiente, la medicina d’urgenza, opera di un popolare medico di origine palestinese, Raed Arafat, che aveva perciò dato le dimissioni.
La corruzione è universale, nella scuola, nella polizia, nel commercio, nel fisco, nei concorsi, e soprattutto nella politica, che ha tradotto le privatizzazioni, caldeggiate da Europa e Fondo Monetario senza troppi riguardi al modo di attuazione, in liquidazioni madornali delle risorse nazionali. Fra le accuse mosse al presidente della repubblica contestato, Traian Basescu, 61 anni, già capitano di marina mercantile, c’è quella di aver svenduto brevi manu, da ministro dei trasporti, la flotta del paese. La situazione istituzionale romena è un pasticcio pittoresco. Il partito socialdemocratico (il nome non inganni: è l’epigono del partito comunista), oggi guidato dal quarantenne Victor Ponta, ha ottenuto la maggioranza parlamentare grazie a un’alleanza col partito nazional-liberale, e ha usato il governo per compiere una serie di colpi di mano sugli organi giudiziari e per mettere in stato di accusa e dichiarare decaduto Basescu, del partito democratico, ma già coinvolto anche lui, come chiunque avesse incarichi responsabili sotto Ceausescu, nelle reti della famigerata Securitate.
La destituzione di Basescu è stata oggetto, lo scorso 29 luglio, di un referendum, come già nel 2007, quando vinse largamente: da allora la sua popolarità è crollata, per la spietatezza delle misure economiche imposte sul dettato di Fmi e Ue, per il fallimento dei proclami anticorruzione e per un atteggiamento giudicato arrogante e fazioso, incapace di favorire il dialogo fra le parti. Nel 2007 a una giornalista importuna disse: «Sporca zingara». Ora, al rivale Antonescu, che perse la moglie per un cancro, ha rinfacciato di non saper prendersi cura delle donne. Cose così. L’Unione Europea, allarmata dalla sveltezza di mano del governo Ponta, ha chiesto che il referendum avesse uno svolgimento regolare e che stabilisse un quorum del 50 più uno per cento degli aventi diritto. L’obiettivo di Ponta e del suo alleato Crin Antonescu, intanto nominato presidente al posto di Basescu, è fallito perché al voto ha partecipato il 46 per cento degli elettori. Ma se si considera che poco meno del 90 per cento hanno votato contro Basescu, e che c’è una consistente percentuale “fisiologica” di non votanti (per giunta si votava in agosto), la sconfessione di Basescu è stata drastica: non abbastanza da indurlo a lasciare. È cominciata allora da parte del governo una delegittimazione a ritroso del referendum, sulla quale la Corte Costituzionale si pronuncerà domani, 21 agosto. La disputa, che riempie implacabili programmi televisivi, ha delle sue eleganze bizantine, come osserva la professoressa Smaranda Elian, che del resto ha tradotto Giordano Bruno in romeno: «La Corte ha chiesto al governo le liste aggiornate, e il governo dice che la Corte ha chiesto di aggiornare le liste». Nel frattempo il ministro dell’Interno, che aveva proclamato l’esito del referendum, si è dimesso. Pressioni e manovre su giudici ordinari, per ogni genere di frodi elettorali, e sulla Corte suprema, hanno imperversato, in un paese in cui è difficile trovare una qualche carica che non sia di nomina diretta di un capofazione. È probabile che comunque la Corte convalidi la nullità del referendum, e rimetta formalmente Basescu in sella, e che Ponta e i suoi facciano buon viso alla “coabitazione”, fino alle elezioni politiche di autunno che dovrebbero confermare il loro successo, già registrato alle amministrative. I più smaliziati (direbbero i cronisti: ma qui il problema è che tutti sono smaliziati a oltranza) pensano che la questione stia nel trovare una onorevole via d’uscita, cioè un salvacondotto, a Basescu, perché se ne torni tranquillamente agli affari privati e non in carcere: problema peraltro notissimo agli italiani. Pensano che anche a questo servisse la visita a Bucarest nei giorni scorsi di Phillip Gordon, sottosegretario Usa ai rapporti con l’Europa: gli americani sono stati amici di Basescu, e sono interessati a bilanciare i legami dei suoi avversari con la Russia: a questo si riduce infatti l’alternativa fra destra e sinistra, che soprattutto in Romania è per il resto la perpetuazione di un tristo equivoco. Dietro Ponta e i suoi compagni di scalata c’è sempre Ion Iliescu, 82 anni, il marpione della “seconda fila” di Ceausescu che, se non fu il burattinaio, come in tanti ormai sostengono, della “rivoluzione” dell’89, ne fu certo il manipolatore e l’usufruttuario, così da farne una rivoluzione dimezzata e cruenta, a differenza di quelle “di velluto”, non solo della Cecoslovacchia di Havel, ma della stessa Bulgaria. E l’esecuzione di Ceausescu e moglie non fu più pulita di quella di Gheddafi. Iliescu fu poi l’uomo che mandò migliaia di minatori a pestare a sangue gli studenti di Bucarest nel 1990, e che guidò nella continuità la “transizione” romena. Poveri studenti — e poveri anche i minatori, alla lunga. Che i giochi di mano del potere romeno siano pesanti lo mostra la sorte toccata all’ex premier socialdemocratico, e rivale di Basescu nel 2004, Adrian Nastase, il quale è in galera da giugno dopo una condanna a due anni per l’utilizzo illegale di fondi elettorali: accusa forse fondata, ma che ha fatto da pretesto a una ennesima prova di forza di Basescu. Al momento dell’arresto, Nastase tirò fuori una pistola per spararsi: il colpo deviato dagli agenti lo ferì alla gola. C’è che ci vede la brutalità della vendetta di Basescu, e chi si congratula che a respingere il ricorso di Nastase e mandarlo in carcere sia stata una corte coraggiosa composta di cinque donne. Farsa e tragedia si mescolano, naturalmente. Ponta, per esempio, scoperto anche lui ad aver copiato un buon terzo della sua tesi di dottorato, ha variamente reagito sciogliendo d’autorità il
Comitato responsabile della validità dei titoli di studio, o sostenendo che nel 2003, anno di redazione della tesi, l’uso delle virgolette nelle citazioni non era in vigore… (Il plagio dottorale, che da noi è restato roba da trote, era costato le dimissioni al presidente della repubblica ungherese e al rampante ministro della Fifesa in Germania). C’è probabilmente una sola figura pubblica la cui autorevolezza non è messa in discussione oggi in Romania, ed è da 22 anni il governatore della Banca Nazionale (con l’intervallo di un anno da primo ministro), Mugur Isarescu: ma anche questa è storia comune, e anche in Romania i fenicotteri del Fondo Monetario e della Commissione europea fanno avanti a indietro coi loro pallottolieri.
Non sorprende che, in un simile contesto pubblico, le opinioni dei cittadini romeni siano al tempo stesso estreme e intercambiabili. Si sentono usare con altrettanta indignazione e amarezza gli stessi argomenti per sostenere o deplorare Basescu e Ponta (o Iliescu), e molto spesso l’uno e l’altro. Qualcuno dice che bisogna aspettare che i giovani arrivino e cambino tutto; altri, i più, dicono di averli già aspettati e che i giovani sono arrivati e non cambiano niente, e tutt’al più se ne vanno dal paese, o non vedono l’ora di andarsene. I più dicono: «Che cosa vuoi farci, noi romeni siamo fatti così, non c’è niente da fare»; è l’espressione più proverbiale. Resta quella sfilata ininterrotta di Case de amanet, banchi dei pegni. Cominciarono, pare, dopo Ceausescu, quando arrivarono i turchi a comprare l’oro, e poi si aggiunsero gli arabi e gli zingari ricchi. Ci si impegna di tutto. Sono, come le farmacie le banche e le chiese, le istituzioni solide della Romania povera: che è davvero molto povera. Certe Case de amanet inalberano la scritta: Aperte 24 ore su 24. La gente può aver bisogno di impegnare la fede alle tre di notte, per bussare alla farmacia. Però Sergiu Shlomo Stapler, 65 anni, uomo d’affari di successo, mi ha ammonito a non fraintendere: la Romania in vent’anni sarà una Svizzera, dice, ha giovani intelligenti e preparati, che hanno appena fatto la miglior figura nelle Olimpiadi di chimica a Washington, ha risorse che imparerà a sfruttare, a partire dal petrolio — che oggi è affare di austriaci e kazaki, e russi e francesi italiani e americani, mentre i romeni prendono la mancia coloniale. Stapler andò in Israele da ragazzo, e lì fece il militare per una vita, fino a diventare colonnello. «Qui mi dicevano: Ebreo! — dice là mi dicevano: Romeno!».
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