GEOGRAFIE Da Laterza «Fin qui tutto bene» di Gabriella Kuruvilla
GEOGRAFIE Da Laterza «Fin qui tutto bene» di Gabriella Kuruvilla
Una storia in cui si incrociano quattro voci e quattro luoghi per raccontare Milano da un punto di vista inconsueto: attraverso posti che nessuna guida percorre, né quelle attente ai monumenti, né quelle che trattano il viaggiatore come un animale da pascolo indicandogli solo dove mangiare, dormire, consumare. Questo è il libro di Gabriella Kuruvilla Milano, fin qui tutto bene che racconta una geografia fuori luogo, o anche contromano per usare il nome della collana Laterza in cui è uscito (con quattro foto di Silvia Azzari, pp. 177, euro 12). «Fuori luogo», sia perché i destini narrati sono per lo più storie di migrazioni, ossia di vite «fuori posto» e tagliate fuori dalla socialità; sia perché gli spazi usati smontano il senso della simmetria con cui di solito ci piace pensare a Milano.
Kuruvilla racconta ciò che oggi è Milano da scrittrice, sperimentando forme di espressione capaci di farci entrare dentro le forme di vita narrate. E lo fa soprattutto in tre modi. I primi due: l’ironia (una delle risorse più vivaci di Kuruvilla, oltre che un ottimo anticorpo alla retorica del migrante); e, come si accennava, il lavoro sullo spazio, che a tratti ricorda i quartieri-mondo dei romanzi di Nagib Mahfuz. Lo spazio infatti non è luogo neutro, né cornice di trasognamenti, ma diventa territorio di esistenza, di promiscuità, anche linguistica, e di condivisione. Tornano in mente le parole del film L’odio (Kassovitz, 1995) riecheggiate dal titolo del libro: «È la storia di una società che precipita, e che mentre sta precipitando si ripete per farsi coraggio: “Fino a qui, tutto bene. Fino a qui, tutto bene. Fino a qui, tutto bene”. Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio».
E così c’è via Padova, zona che fin dagli anni Cinquanta del secolo scorso accoglie tutti, e dunque anche gli extracomunitari: «Il quartiere più europeo di Milano, ricorda la Londra dei Beatles, ma viene vissuta come un problema di ordine pubblico», ed è qui che abita Anita, borghese quarantenne italoindiana dalla vita confusa. Poi c’è viale Monza, quartiere storico riempitosi nel dopoguerra di palazzi orrendi, dove vive l’egiziano Samir, che in un bar di San Babila rimorchia una ragazza raccontandole «la solita storia, che per me è un incubo ma che per lei evidentemente era una fiaba romantica: il viaggio in gommone fino a Lampedusa, i mesi come pastore in Sicilia, il tirare a campare a Napoli, il treno diretto per Milano Centrale, le notti a dormire in stazione»: una vera storia hard da docufilm. Al terzo snodo del testo poi c’è via Paolo Sarpi, che era una delle strade commerciali più importanti di Milano, fin quando «alla fine degli anni ’90 hanno venduto quasi tutti: i cinesi pagavano subito e in contanti, tirando fuori i soldi dalle valigette. Una ciav d’or la derva tüt iport». Qui, dove pare di trovarsi nel centro di Pechino e i nativi del quartiere sembrano loro stessi turisti, abita Stefania. E infine c’è Tony, nato a Scampia e emigrato a Milano con la famiglia, per vivere abusivamente in un palazzo a Corvetto, nella periferia sudest a quattro chilometri dal Duomo.
Il terzo modo per rendere il senso di un mondo così attraversato da vite che si incrociano e si scontrano è una soluzione di trama: le quattro parti che compongono il libro, infatti, come nel film Babel (González Iñárritu, 2006) non sono quattro racconti a sé stanti, ma nuclei di un mondo che non si può narrare con un flusso continuo e monofocale. A tenere insieme queste storie in cui i personaggi via via interagiscono, un gancio narrativo di straordinaria potenza umoristica (nel senso pieno, riflessivo, del termine): la vicenda di due letti Ikea «a soppalco», ovvero l’oggetto che più permette l’accoglimento del corpo a economia ridotta. Insomma, fin che va bene, la soluzione salvaspazio per antonomasia.
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