Le antiche mappe dei mondi digitali

La perdita della spinta propulsiva delle controculture digitali dopo la grande trasformazione del web. La scommessa di una rinnovata teoria critica della Rete che parta dalle ambivalenze che contraddistinguono i social network e dai modi di produzione dominanti dell’opinione pubblica La rete, questa nostra conosciuta. Di Internet, infatti, si sa ormai tutto.

La perdita della spinta propulsiva delle controculture digitali dopo la grande trasformazione del web. La scommessa di una rinnovata teoria critica della Rete che parta dalle ambivalenze che contraddistinguono i social network e dai modi di produzione dominanti dell’opinione pubblica La rete, questa nostra conosciuta. Di Internet, infatti, si sa ormai tutto. Che è diffusa in ogni parte del mondo, che i punti di accesso più numerosi sono negli Stati Uniti e in Europa, anche la gli internauti cinesi sono molti di più di quelli statunitensi. Che esiste il digital divide, ma che se si guarda alla Rete come medium comunicativo che vede la convergenza tra computer e telefoni cellulari, l’Africa non è certo tagliata fuori, visto che i telefoni cellulari che consentono di navigare su Internet hanno una diffusione di poco inferiore a quella europea. Infine, che la Rete è talmente entrata nella vita quotidiana che la distinzione tra mondo virtuale e mondo reale è da consegnare definitivamente alla critica roditrice dei topi, perché è fuorviante e non aiuta a comprendere la grande trasformazione che è alle nostre spalle e il tempo presente. Se l’accento si sposta sulle controculture digitali, la necessità di aggiornare la cassetta degli attrezzi teorica è altrettanto evidente. Prendiamo, ad esempio, l’affermazione che l’«informazione vuol essere libera», cavallo di battaglia dell’attitudine hacker.
In Rete viene prodotta, distribuita, elaborata una quantità stratosferica di informazione con una difficoltà crescente da parte dei media mainstream a controllare sia la sua produzione che la sua distribuzione. L’informazione è dunque libera, ma occorre intendersi su cosa si intende per libera. Se si analizza il contenuto dei milioni di blog, le fonti a cui attingono sono quasi sempre riconducibili ai tanto odiati media mainstream. E tuttavia, i commenti sono liberi, cioè non hanno filtri. Peccato che un post in un blog riceve in media, due commenti, che quasi mai esprimono punti di vista critici rispetto il dominante spirito del tempo. In altri termini è una libertà solipsistica.
L’acquario dei social network
L’ambivalenza tra libertà e omologazione emerge in tutta la sua potenza nei social network. Con Facebook, Twitter sono costruite comunità virtuali di ogni genere e tipo. Ma ultimamente la policy dei due social network cominciano a porre evidenti limiti a forme di socialità «eterodosse», come ha documentato il gruppo milanese Ippolita nel volume autoprodotto Nell’acquario di Facebook. Quello che viene incentivato è infatti la costituzione di gruppi di uomini e donne «simili» nei gusti, consumi culturali, preferenze sessuali, opinione politiche. La libertà concessa è dunque la libertà di incontro tra simili, cancellando così quell’elemento che i social network avevano indicato come loro obiettivo, creare cioè le condizioni per l’incontro con l’Altro.
Ma questi aporie, contraddizioni sono l’esito della diffusione della Rete. È sue questi elementi che dovrebbe concentrarsi un’attitudine critica. Come evidenzia Geert Lovink nel suo ultimo saggio Le ossessioni collettive (Università Bocconi Editore) per fare i conti con la grande trasformazione occorre assumere l’ambivalenza del presente e, magica parola, destrutturarla. Operazione semplice a dirsi, ma difficile a farsi. Un modo per compiere questo «movimento critico» è partire dalla constatazione che l’ambivalenza è un fattore dinamico della Rete. Il fatto che Internet si presenti contemporaneamente come spazio di libertà, ma anche si assoggettamento consente di avviare un circolo virtuoso che favorisce l’innovazione del software, dell’hardware e dei processi di produzione dei contenuti. Detto più semplicemente, la tensione è tra strategie di controllo da parte delle multinazionale e tattica di sottrazione, defezione da parte degli utenti.
Le tattiche di sottrazione si manifestano in mille rivoli. Può essere l’anonimato per comunicare on line, la condivisione dei file musicali e video, lo streaming dove il confine tra lecito e illecito è così sfumato da risultare inesistente. Ma ci sono altri fattori che fuoriescono da progetti, come la produzione di software non legati alle norme della proprietà intellettuale o di dare vita a strumenti informativi on-line alternativi a quelli dominanti – i media indipendenti, il citizen journalism. Le strategie di controllo puntano invece a «normalizzare» la Rete. Delle policy sempre più restrittive si è gia detto. Tradizionale è l’opera di lobby delle multinazionali high-tech o dell’intrattenimento affinché i governi nazionali e gli organismi internazionali definiscano norme sempre più congeniali ai loro interessi economici. È questa una tendenza che può conseguire risultati, ma anche sonore sconfitte, come quella di ieri, dove il parlamento europeo ha bocciato la proposta di trattato chiamato Acta, considerato così liberticida che anche gran parte dei politici conservatori lo ha bocciato.
Capitalismo senza proprietà
Meno indagata è invece un’altra tendenza, che farebbe alzare il sopracciglio a molti teorici radical, ma che invece costituisce un terreno di conflitto niente affatto decifrabile. Yoachai Benkler, filosofo del diritto statunitense, l’ha definito il progetto di un capitalismo senza proprietà privata che vede come protagonisti alcune multinazionali, come Google, Ibm, Facebook e più recentemente Twitter. Un progetto che valorizza l’uso di programmi informatici open source , che incensa la circolazione delle informazioni senza limiti, che ritiene la proprietà intellettuale un limite allo sviluppo capitalistico, perché inibisce la produzione di contenuti da parte degli utenti. Si propongono cioè come società di servizio, che raggruppano le informazioni attraverso dispositivi di cloud computing, le cosiddette nuvole di dati che vincolano i singoli a una specifica «piattaforma» per quanto riguarda l’accesso alla Rete e il reperimento dei programmi informatici per scrivere, elaborare dati, ascoltare musica, vedere un film, partecipare a un social network. Non sono però dei buoni samaritani, bensì imprese che fanno profitti con le inserzioni pubblicitarie o con le consulenze organizzative. Dunque, nessuna proprietà su alcuni mezzi di produzione – il software è open source – ma costruzione di una architettura software e hardware che consenta la sussunzione della cooperazione sociale. È su questo terreno che si misura la capacità di una rinnovata attitudine critica dentro e contro la Rete.
Un’attitudine critica che riguarda sia il modo di produzione dei manufatti hardware e software che il modo di produzione dell’opinione pubblica, cioè quella socialità, quelle informazioni, quei contenuti che scandiscono la vita dentro e fuori lo schermo. È su questo crinale che temi come il lavoro, la precarietà, la produzione della ricchezza diventano parole chiave per accedere una teoria critica della Rete.
Geert Lovink, nel suo già ricordato Ossessioni collettive, sostiene che una teorica critica della Rete deve certo misurarsi con le trasformazioni indotte dalla Rete, ma restando però fortemente ancorata agli ambiti transdisciplinari che l’ha da sempre caratterizzata.Dunque sociologia, filosofia, economia, ma anche antropologia, psicologia cognitiva, etnologia, architettura. Una teoria critica della Rete ha infatti necessità di comprendere come sono cambiati i modi di vivere, quali le relazioni sociali, la percezione di sé, ma anche come la dimensione spaziale e l’intervento «manipolatorio» del cyberspazio abbia molto a che fare con Internet, non solo per svelare i rapporti di potere vigenti, ma anche per sfuggire alla tentazione di una interpretazione economicista o scientista della vista sociale. Dunque nessun revival di una tranquillizzante dicotomia tra apocalittici e integrati, ma un una pratica teorica ben più ambiziosa che distruttora appunto l’ambivalenza della vita dentro e fuori lo schermo. In altri termini, la sfida intellettuale da giocare è di immaginare lo sviluppo di una teoria critica della Rete come componente di quel movimento critico che punta a una critica dell’economia politica non solo di Internet, ma del capitalismo contemporaneo

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