Il velo «resistente» di Rahima, ragazza in cerca di futuro

«Buon anno Sarajevo» di Aida Begic vince la Mostra di Pesaro Protagonista Marija Pikic, il film racconta i ragazzi bosniaci del dopoguerra. Nelle sale italiane l’anno prossimo Il premio Lino Miccichè della 48a edizione della mostra del nuovo cinema di Pesaro è andato a Djeca (Bambini) di Aida Begic (Bosnia), premiato anche da Amnesty International e dalla giuria dei giovani. Per le nostre sale è stato infatti comprato dalla Kitchen Film di Emanuela Piovano che lo ha visto al Certain Regard di Cannes (premiato anche qui) e ne è rimasta colpita al punto da non tenere conto del periodo non certo florido per i botteghini. Uscirà  l’anno prossimo con il titolo di Buon anno, Sarajevo.

«Buon anno Sarajevo» di Aida Begic vince la Mostra di Pesaro Protagonista Marija Pikic, il film racconta i ragazzi bosniaci del dopoguerra. Nelle sale italiane l’anno prossimo Il premio Lino Miccichè della 48a edizione della mostra del nuovo cinema di Pesaro è andato a Djeca (Bambini) di Aida Begic (Bosnia), premiato anche da Amnesty International e dalla giuria dei giovani. Per le nostre sale è stato infatti comprato dalla Kitchen Film di Emanuela Piovano che lo ha visto al Certain Regard di Cannes (premiato anche qui) e ne è rimasta colpita al punto da non tenere conto del periodo non certo florido per i botteghini. Uscirà  l’anno prossimo con il titolo di Buon anno, Sarajevo.
Pesaro, luogo del cuore, come diceva Pasolini che ha frequentato questa mostra con Bertolucci, Lizzani, Bellocchio e poi Moretti che qui incontrò Michalkov anche sul campo di tennis, i brasiliani del cinema novo con Glauber Rocha in testa, gli jugoslavi che sedevano tutti allo stesso tavolo, le rivisitazioni del cinema italiano, le appassionate discussioni su teoria e pratica tra critici e registi. Emanuela Piovano regista, produttrice e distributrice, ha dimostrato con i suoi film e le sue scelte la sua passione per il cinema (sua è anche l’idea dei film a lunga conservazione, in buste Uht come il latte, che si troveranno nelle sale e nelle librerie per chi è in crisi di astinenza di buon cinema) e Djeca lo dimostra. Di film bosniaci sulle conseguenze della guerra e il fondamentalismo crescente ne abbiamo visti anche altri nel corso di questi anni, ma questo ha il pregio della narrazione serrata, della mancanza di indicazioni didattiche e ci accompagna nella difficile comprensione della generazione che ha vissuto la guerra da bambino. I video che vediamo nell’incipit durante una festa scolastica sono realizzati durante la guerra, ormai la protagonista Rahima è cresciuta e fa la cuoca in un ristorante, si prende cura del fratello minore, i genitori non ci sono più.
È lei il cuore del film, che in piani sequenza seguiamo da casa al lavoro, o mentre pedina da lontano il fratello per tenerlo d’occhio nei suoi oscuri traffici, sempre nel cupo riquadro di cavalcavia e sopraelevate, mentre un rombo di ferraglie da traffico urbano evoca lontani rumori non dimenticati e ogni colpo è ancora come un colpo di fucile. Il suo revolver al fianco per difendersi da una società che ci appare poco rassicurante, sempre sul punto di esplodere, è il velo che le copre la testa. Lei, ragazza ribelle, cresciuta in orfanotrofio ora si è riscattata e come capofamiglia vuole ostinatamente ricostruire il futuro. Intorno a quel velo che crea in occidente tanti problemi ideologici il film acquista forza e una volta tanto concede al pubblico internazionale di accedere a significati altrimenti incomprensibili. Protetta da quel velo che ha scoperto da poco, Rahima passa indenne da insulti, machismo, provocazioni ed anche timidi corteggiamenti. Sappiamo che la regista, convertita di recente, trasmette la sua esperienza attraverso questo personaggio, la sua camera a mano è un uso diverso dal solito, segue i battiti di un cuore affannato che avanza senza sosta, di una volontà ferma e sicura nel difendersi.
La guerra gli ha bene insegnato come fare, come rispondere colpo su colpo, anche perché si ha l’impressione che la guerra continui nella società, i bollettini che dà la televisione su «gente affamata», «persone rimaste uccise» ne sono la prova.
L’interpretazione di Marija Pikic assume un valore che supera il personaggio, come rappresentasse l’intero paese: «Io non sono di confessione musulmana – dice l’attrice – Non conosco e non ho vissuto le circostanze in cui si è trovata Sarajevo. Mi sono preparata al film lavorando per due mesi prima delle riprese in istituti di orfani, nelle istituzioni sociali e gli sguardi di quei ragazzi mi hanno ispirato. Noi oggi non siamo più nella situazione dei nostri genitori che si conoscevano tutti come fratelli, in questa guerra non ci sono stati vincitori né vinti. Aida, la regista, è musulmana, mi ha insegnato come indossare il velo che è parte consistente del personaggio di cui sappiamo solo alcuni accenni al passato. La sua storia che resta sullo sfondo è quella di una ragazza ribelle che al liceo ha avuto problemi, una ragazza punk ribelle, come si capisce dall’incontro con il drogato che frequentava in quegli istituti. L’impegno che dedica al fratello e la svolta religiosa l’hanno aiutata a essere un esempio di vita, come cerca di dimostrare anche all’assistente sociale. Il velo è il simbolo che non è più una peccatrice».
La Bosnia che prima della guerra era un paese laico, ora ha una presenza sempre più fondamentalista, lo abbiamo visto recentemente anche nel film Il sentiero di Jasmila Zbanic. Sarajevo, dice ancora Marija Pikic, appartiene nella divisione del paese alla federazione serbo musulmana, quindi si vedono donne totalmente coperte e si ha la sensazione che questa sia la cultura dominante. «Il film si focalizza sulla mia generazione, se ci fosse un’altra guerra sarebbe ancora più facile spararsi addosso, visto che ci si è sparati quando eravamo tutti fratelli. Oggi la popolazione si è abituata a vivere dentro ai confini, le forze dell’Onu, le forze di pace non si vedono più in giro, si sono inserite nelle istituzioni».
Aggiunge: «La nostra generazione è convinta che non ci sarà più una guerra, non pensiamo agli scontri per l’etnia di appartenenza: siamo tornati alla situazione che c’era con Tito, abbiamo tanti matrimoni misti e questo lo considero un elemento molto interessante, ci stiamo mischiando tra noi, anche se si tratta di un processo molto lento».

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