La Signora del giallo ha saputo narrare anche la malattia
La Signora del giallo ha saputo narrare anche la malattia «Il mio lungo, solitario viaggio verso la notte volge al termine», scrive Laura Grimaldi nell’ultima pagina del suo ultimo libro. L’ho letto da poco, e aspettavo che tornasse a casa dall’ennesimo ricovero, per dirle quanto ho apprezzato questa maniera di narrare una travagliata quotidianità irta di dolore con inesauribile ironia. E spesso Laura era anche sferzante, quando trattava argomenti che la facevano indignare, capace di un raro talento nel fulminare le umane miserie ma, al contempo, dotata di una sensibilità profonda, pacata, che arrivava al cuore con calda schiettezza, mai con cinismo, e questo emerge in modo sottile o a volte dirompente in ogni scena di Faccia un bel respiro, che già nel titolo contiene un sano sarcasmo verso il mondo ospedaliero dove, malgrado tutto, ha saputo cogliere una variegata umanità che tratteggia come solo lei avrebbe potuto.
La nostra amicizia cominciò nei lontani tempi in cui sognavo di fare lo scrittore, e mi ha di fatto tenuto a battesimo: i primi racconti che ho pubblicato, fu lei a inserirli in appendice ai «Segretissimo» Mondadori, dirigendo con l’inseparabile Marco Tropea «Il Giallo» e anche «Urania» per ventisette anni, e lei stessa ha precisato che frequentava «la Mondadori quando c’era ancora Arnoldo a fare da editore, e il caffè lo si prendeva con Elio Vittorini o Vittorio Sereni». Poi, «al primo ingresso in azienda di un non editore e delle sue filosofie marketing», se n’è andata altrove. E così con Tropea avrebbe intrapreso l’avventura editoriale di Interno Giallo, e Puerto Escondido fu tra i primi libri che pubblicarono.
Laura, però, la stimavo ben prima di conoscerla. Avevo letto Processo all’istruttoria: cronaca di un’inquisizione politica, del 1981, che per quelli della mia generazione fu un bagliore di luce in un periodo tenebroso, un testo lucido e coraggioso in tempi di picconatura dello stato di diritto.
Ero poi diventato un suo lettore accanito, non vedevo l’ora che pubblicasse un nuovo romanzo, bevevo la trilogia Il sospetto – La colpa – La paura, o Il cappio al collo, mi godevo le satire giallo-politiche di Elementare, signor Presidente, come pure la riabilitazione di Monsieur Bovary, ma… Laura sapeva nutrire un olimpico distacco dalla scrittura e nonostante il successo ottenuto, non sentiva affatto il bisogno di «coltivarlo» continuando a pubblicare. Del resto, aveva già scritto molto, e io allora neanche lo sapevo: una trentina di romanzi thriller quando «i tempi volevano che i gialli fossero opera solo di americani, e uomini», e lei li firmava con pseudonimi «poco credibili come Alfred Grim», magari ambientandoli in puro stile hard boiled a New York, dove allora non era mai stata.
Rideva quando la chiamavano «Regina del giallo», ma accettava sorniona la definizione dell’amico Paolo Soraci: «Stalinista vittoriana», perché in lei c’era una scorza dura di militante e una regalità, una finezza di portamento e di pensiero che rievocasse una certa idea d’Inghilterra, dove peraltro vive una parte dei suoi affetti più cari. Quante volte mi ha detto: «Ma come, viaggi tanto, e non sei mai stato a Londra? Ma vergognati». E quando finalmente l’anno scorso ci andai, tornandone estasiato, ha sbottato con la consueta ironia divertita: «Be’, che ti avevo detto? Era ora che la piantassi un po’, con ‘sto Messico».
Laura, semplicemente, ha scritto quando ne ha sentito il bisogno, e lo stesso ha fatto come editore: conclusa la magnifica esperienza di Interno Giallo («Convinta che libro vuol dire amore», affermava) ha deciso che quel tempo fosse finito, ma senza interrompere le traduzioni, perché ha dato voce — ricreando in modo ineguagliabile emozioni, sensazioni, profondità — a oltre duecento libri altrui, e se citassimo gli autori prenderebbe corpo un’ampia storia della narrativa del Novecento, con predilezione per i classici del noir. Diversi anni fa era alle prese con un «postumo» di Hemingway, e mi chiamò per aiutarla a dipanare la complessa descrizione di parti e meccanismi di sparo di un certo fucile da caccia; non che io fossi un esperto in materia, ma conoscendo la mia passione per Papa Ernest, mi coinvolse in quella strampalata consulenza.
So quanta forza di volontà c’è voluta perché Laura riuscisse a darci Faccia un bel respiro, scritto in condizioni di estrema fatica: è il suo «lungo addio» e resterà per sempre. Laura era così: incrollabile e d’acciaio se decideva di portare a termine un compito, ma sempre conservando in quel suo sguardo penetrante, che ti sembrava cogliesse anche i pensieri mentre si formulavano, una tenerezza struggente. La sua assenza è incolmabile, ma più grande ancora è la fortuna di averla frequentata
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