A Bruxelles l’Europa non è certo uscita dal coma in cui l’ha gettata la crisi dell’euro. Né le risorse economiche, né – e meno che mai – quelle politiche messe in campo sono adeguate per resistere a una speculazione in buona parte promossa da quelle stesse banche e istituzioni finanziarie che tengono sotto scacco la moneta unica, ma che ne sono anche le principali beneficiarie. I governi degli Stati membri, sia quelli forti che quelli deboli, sono di fronte a un’alternativa secca: o salvare banche, finanza e assetto istituzionale dei cosiddetti mercati; o salvare i diritti: quelli del lavoro, quello al lavoro e al reddito, quelli alla sicurezza, all’esercizio della cittadinanza, alla dignità della persona.
A Bruxelles l’Europa non è certo uscita dal coma in cui l’ha gettata la crisi dell’euro. Né le risorse economiche, né – e meno che mai – quelle politiche messe in campo sono adeguate per resistere a una speculazione in buona parte promossa da quelle stesse banche e istituzioni finanziarie che tengono sotto scacco la moneta unica, ma che ne sono anche le principali beneficiarie. I governi degli Stati membri, sia quelli forti che quelli deboli, sono di fronte a un’alternativa secca: o salvare banche, finanza e assetto istituzionale dei cosiddetti mercati; o salvare i diritti: quelli del lavoro, quello al lavoro e al reddito, quelli alla sicurezza, all’esercizio della cittadinanza, alla dignità della persona.
Per alcuni governi l’alternativa si pone in maniera stringente: i soggetti da depredare con i cosiddetti compiti a casa (mai espressione più cretina era comparsa nel lessico politico) sono i propri concittadini. Per altri l’alternativa sembra più mediata: per ora a soffrire devono essere i cittadini di altri Stati: per i quali risanare il bilancio del proprio Stato altro non significa che salvare le banche che gli hanno fatto credito in modo irresponsabile negli anni delle vacche grasse: banche per lo più proprio di quegli Stati che oggi vorrebbero insegnare a tutti la moderazione. Ma per tutti il problema sembra ormai solo quello di perpetuare un bluff, di rinviare la resa dei conti con una finanza fuori controllo e prolungare quello stato comatoso: una condizione sull’orlo del baratro, che non offre alcuna chance alla crescita; e meno che mai alla conversione ecologica; e meno ancora alla democrazia.
L’esito disastroso del Summit Rio+20, dove si sarebbe dovuto decidere come garantire un futuro sostenibile a un pianeta lanciato verso un cataclisma globale ci fa misurare i passi indietro compiuti dalla governance mondiale – e da quella europea in particolare – nel corso degli ultimi vent’anni. Avanti così e di fronte a noi c’è solo la catastrofe ambientale, il disastro economico e occupazionale, la dissoluzione dell’Unione Europea e del disegno ideale da cui era nata. Ma in prospettiva c’è anche la perdita dei vantaggi competitivi, oggi difesi con tanta ostinazione, di quei paesi che più ne hanno goduto.I primi scricchiolii già si avvertono in Olanda o in Austria come in Germania: ma come molti di noi non riescono ancora a riconoscere il proprio futuro nel disastro greco, così il popolo tedesco non capisce ancora quanto poco la nostra parabola si discosti da quella che lo attende.
Apparentemente ci troviamo di fronte a un disegno lucido: usare la crisi per comprimere diritti, reddito e pretese del lavoro a favore di rendita e profitto, portando alle estreme conseguenze quel trasferimento di risorse dal lavoro al capitale che ha caratterizzato l’involuzione economica dell’Occidente nel corso dell’ultimo trentennio. Ma poi?
Mai la mancanza di una visione strategica delle classi dirigenti dei paesi europei è apparsa più chiara.
L’ostinazione di Angela Merkel non è il disegno criminale di trasformare l’Europa in un Quarto Reich (questo la porterebbe forse ad adottare misure opposte a quelle che patrocina o impone), bensì una resa di fronte ai pregiudizi politici e alla meschinità esistenziale su cui è stata costruita la sua carriera, come quella di tutto l’attuale establishment europeo. Berlusconi ha aperto la strada: «Padroni in casa nostra» è la formula della dissoluzione di ogni comunità di intenti, di ogni forma di solidarietà, di ogni prospettiva di emancipazione dalle miserie del presente.
L’alternativa a questa deriva, ci dicono, è l’unione politica dell’Europa. Ma nessuno affronta i problemi che questa prospettiva comporta; problemi non solo di ordine monetario e fiscale (affrontati, ma nemmeno mai definiti in modo convincente) o di ordine costituzionale (tutt’altro che secondari); ma soprattutto di ordine produttivo (riconversione economica) e politico (istituzioni e partiti transnazionali; nuove forme di partecipazione democratica) e di ordine culturale e linguistico. L’attuale non-discussione sulle riforme costituzionali italiane – non solo priva di respiro europeo, ma clandestina e truffaldina – e le decisioni già adottate sono miserabili. A partire dalla decisione più stupida: la messa al bando, con il pareggio di bilancio in Costituzione, di Keynes e del migliore pensiero economico del ‘900.
L’unica alternativa alla dissoluzione dell’Europa è schierarsi sull’altro corno del dilemma: dalla parte dei diritti del lavoro e di cittadinanza. Ma questo comporta uno scontro frontale con il potere della finanza, perché nessun progetto di un qualche respiro sarà mai perseguibile in presenza di una bolla finanziaria e del potere di mercati che in poche ore possono cambiare radicalmente il contesto di riferimento e azzerare qualsiasi disegno politico. Non sono certo Monti e i rappresentanti di quelle istituzioni europee e mondiali che si sono rispecchiate nella sua cultura e nel suo cinismo, e meno che mai quella sinistra europea che si è dissolta nella ostinata certezza che alla dittatura dei mercati e alla globalizzazione liberista non c’è alternativa, quelli che possono condurre uno scontro del genere. Eppure le condizioni ci sarebbero: invece che compiacersi di non essere ancora precipitati nella situazione della Grecia, o di avere qualche punto di spread in meno della Spagna – una competizione meschina e infantile su chi fa meglio «i compiti a casa» che sul Corriere della sera Michele Salvati rinfacciava giorni fa a non so chi, ma che il primo a praticare è stato proprio Monti – bisognerebbe imboccare la strada della solidarietà tra i paesi cosiddetti Pigs (o Piigs: Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna; poi Cipro e domani, probabilmente, Francia). L’Italia, più di altri, potrebbe promuovere questo schieramento: è l’unico di questi paesi ad avere un avanzo primario che gli permetterebbe di congelare temporaneamente il proprio debito – per poi passare, eventualmente, a un trattamento selettivo dei propri creditori – senza dover ricorrere al mercato per rifinanziarlo. Anche solo prospettare una misura del genere basterebbe per riportare a più miti consigli i paesi forti, aprendo le porte a una gestione congiunta dei debiti sovrani.
Ma una mossa del genere non avrebbe senso senza un’autentica alternativa nel campo delle politiche economiche. Non si tratta né solo né innanzitutto di recuperare competitività per riposizionarsi nella gara a chi esporta di più; e meno che mai di cercare di farlo riducendo salari e servizi pubblici e aumentando precariato e sfruttamento del lavoro. Gli sprechi che hanno messo alle corde la cosiddetta azienda Italia sono altri, mentre precariato e insicurezza non fanno che incrinare produttività e competitività dell’economia. L’idea di risanare una bilancia dei pagamenti disastrata e di ripagare un debito pubblico insostenibile con le esportazioni non fa i conti con un mondo che non è più quello di cinquant’anni fa. Se una soluzione del genere fosse praticabile, tanto varrebbe ritornare alla lira e alle svalutazioni. Ma quei mercati – compreso il nostro – sono stati ormai occupati da altri players globali e molte delle merci che ne assorbono le esportazioni – e non solo quelle dell’Italia – hanno ben poco avvenire in un mondo alle prese con lo strapotere della finanza e la crisi ambientale. Il problema, caso mai, non è quello di esportare di più – benvenuto comunque chi riesce a farlo – ma quello di importare di meno.
Cambiare modello con la conversione ecologica, rimettendo a confronti pubblici e a decisioni condivise la determinazione di che cosa, come e dove si produce: produrre beni dal futuro sicuro, perché sono quelli che riportano i processi economici entro i limiti della sostenibilità (e chi prima lo fa avrà anche i tanto agognati vantaggi competitivi: non ultimo dei motivi per cui l’economia italiana continua a perdere terreno); e riterritorializzare, per quanto è possibile, le filiere: dalla produzione al consumo: non con un impraticabile protezionismo, ma coinvolgendo territori e comunità nei processi di riconversione: sia dal lato della produzione per offrire una prospettiva e un mercato sicuro alle aziende in crisi, sia da quello del consumo, promuovendo beni e servizi condivisi, sia da quello del recupero dei beni dismessi o dei loro materiali.
Su queste basi si può ricostruire una nuova idea di Europa: non più solo frutto del pensiero visionario di un pugno di uomini reclusi e isolati dalla guerra, bensì frutto di un grande dibattito pubblico, finalmente di nuovo politico, che coinvolga migliaia e poi milioni di cittadini europei. In Grecia Syriza ne ha dimostrato le potenzialità. Nei giorni scorsi a Bruxelles, alcune centinaia di economisti, di sindacalisti e di parlamentari europei sono tornati a prospettare una rotta alternativa per l’Europa. Sabato e domenica scorsi a Parma i primi nuclei del nuovo movimento Alba hanno cominciato a definire un loro contributo a questa prospettiva a partire dai temi del lavoro, dei beni comuni e dell’ambiente
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