CISGIORDANIA La denuncia del centro per i diritti umani B’Tselem
CISGIORDANIA La denuncia del centro per i diritti umani B’Tselem
Ma nessuno paga. Anche quando nelle esercitazioni delle unità speciali ci scappa il morto
Il mondo dimentica i palestinesi nei Territori occupati da Israele. La sanguinosa guerra civile siriana e altri scenari di crisi nella regione, come l’Egitto, assorbono l’attenzione della comunità internazionale, nascondendo violazioni ed abusi che subiscono i civili in Cisgiordania. La cronaca quotidiana ne è piena. Una delle ultime denunce arriva proprio da un centro israeliano per la tutela dei diritti umani, B’Tselem.
Lo scorso 29 giugno un attivista ha filmato due guardie di frontiera – un corpo paramilitare della polizia israeliana – impegnati ad aggredire con violenza Abdel Rahman Burqan, un bambino palestinese ad Hebron. Le immagini (http://www.btselem.org/video/201200629_soldier_kicks_boy) mostrano un agente nascosto nei pressi di un vicolo in attesa del bambino. Ad certo punto salta fuori e con tono perentorio urla al piccolo: «Perché stai causando un putiferio?». Abdel Rahman comincia a piangere e a chiamare la madre ed è a questo punto che appare un altro agente della guardia di frontiera che lo prende a calci. Amer Burqan, il padre del bambino, intervistato da Ynet, il sito online del quotidiano israeliano Yediot Ahronot, ha assicurato che il figlio non aveva provocato in alcun modo i due agenti o scagliato sassi contro di loro. L’uomo ha aggiunto che la polizia israeliana non consente ai palestinesi il passaggio per il vicolo dove è stato aggredito il figlio durante le festività ebraiche o durante i movimenti nella zona dei coloni e che forse Abdel Rahman è stato picchiato per questo.
Un portavoce israeliano ha condannato l’aggressione, definendola «contraria ai valori» della guardia di frontiera. Ha anche annunciato l’apertura di un’inchiesta. Sino ad oggi però le indagini avviate sul comportamento di soldati e poliziotti verso i civili palestinesi, raramente sono arrivate alla condanna effettiva dei responsabili. Anche quando i palestinesi ci rimettono la vita. Ne sanno qualcosa i fratelli Shawakha che lo scorso marzo, convinti di trovarsi di fronte a dei ladri, finirono invece sotto il fuoco di agenti di unità speciali israeliane. Uno dei tre fratelli rimase ucciso. «Accadde tutto la notte del 27 marzo, intorno all’una e trenta», ricorda Akram Shawakha che a quell’ora era sul terrazzo della sua abitazione, nel villaggio di Rammun (Ramallah). «All’improvviso notai nell’oscurità due uomini in abiti civili a pochi metri dall’ingresso di casa», prosegue Akram «svegliai i miei fratelli – Anwar di 39 anni e Rashad di 28 – per avvertirli che qualcuno aveva cattive intenzioni». Akram stesso affrontò gli sconosciuti che parlavano perfettamente arabo. «Chi siete, domandai ai due uomini, e uno di loro rispose: Non preoccuparti, a Rammun ci conoscono tutti ma io volevo saperne di più e chiesi la loro carta di identità. A quel punto i due tirarono fuori le armi e fecero fuoco». I tre fratelli Shawakha rimasero feriti, Rashad spirò in ospedale il 2 aprile. Qualche giorno dopo si seppe dai giornali israeliani che i due «sconosciuti» erano militari in esercitazione dell’unità Dovdovan, formata da mistaravim, ossia soldati travestiti da palestinesi. Il 24 aprile, su insistenza di B’Tselem, l’Esercito ha aperto un’inchiesta ma da allora non ha fornito particolari sull’andamento delle indagini. «Pensavamo fossero dei ladri, loro non ci hanno mai detto di essere soldati» ha commentato con amarezza Akram Shawakha.
Le esercitazioni delle unità speciali israeliane nei villaggi palestinesi sono sempre frequenti, denuncia la ong Yesh Din. Nonostante i pericoli crescenti per i civili. «Da quando la Cisgiordania è più calma, l’esercito ha intensificato il training nelle terre occupate», rivela da parte sua Yehuda Shaul, uno dei fondatori di «Breaking the silence», una organizzazione di ex militari che hanno scelto di «rompere il silenzio». «Si scelgono i villaggi (palestinesi) meno coivolti nella rivolta (contro l’occupazione) e quindi meno pericolosi per i soldati, è un fenomeno in crescita», aggiunge Shaul. In queste ore tremano gli abitanti di Aqabah, dove l’esercito sta svolgendo un’esercitazione. «Sappiamo che in altri villaggi chiedono alle popolazioni di abbandonare le proprie case per alcune ore, fino al termine delle manovre. Ma nel nostro caso tutto ciò non è avvenuto e ci siamo ritrovati all’improvviso sotto coprifuoco», riferisce Adel, un abitante di Aqabah.
Lo scorso 29 giugno un attivista ha filmato due guardie di frontiera – un corpo paramilitare della polizia israeliana – impegnati ad aggredire con violenza Abdel Rahman Burqan, un bambino palestinese ad Hebron. Le immagini (http://www.btselem.org/video/201200629_soldier_kicks_boy) mostrano un agente nascosto nei pressi di un vicolo in attesa del bambino. Ad certo punto salta fuori e con tono perentorio urla al piccolo: «Perché stai causando un putiferio?». Abdel Rahman comincia a piangere e a chiamare la madre ed è a questo punto che appare un altro agente della guardia di frontiera che lo prende a calci. Amer Burqan, il padre del bambino, intervistato da Ynet, il sito online del quotidiano israeliano Yediot Ahronot, ha assicurato che il figlio non aveva provocato in alcun modo i due agenti o scagliato sassi contro di loro. L’uomo ha aggiunto che la polizia israeliana non consente ai palestinesi il passaggio per il vicolo dove è stato aggredito il figlio durante le festività ebraiche o durante i movimenti nella zona dei coloni e che forse Abdel Rahman è stato picchiato per questo.
Un portavoce israeliano ha condannato l’aggressione, definendola «contraria ai valori» della guardia di frontiera. Ha anche annunciato l’apertura di un’inchiesta. Sino ad oggi però le indagini avviate sul comportamento di soldati e poliziotti verso i civili palestinesi, raramente sono arrivate alla condanna effettiva dei responsabili. Anche quando i palestinesi ci rimettono la vita. Ne sanno qualcosa i fratelli Shawakha che lo scorso marzo, convinti di trovarsi di fronte a dei ladri, finirono invece sotto il fuoco di agenti di unità speciali israeliane. Uno dei tre fratelli rimase ucciso. «Accadde tutto la notte del 27 marzo, intorno all’una e trenta», ricorda Akram Shawakha che a quell’ora era sul terrazzo della sua abitazione, nel villaggio di Rammun (Ramallah). «All’improvviso notai nell’oscurità due uomini in abiti civili a pochi metri dall’ingresso di casa», prosegue Akram «svegliai i miei fratelli – Anwar di 39 anni e Rashad di 28 – per avvertirli che qualcuno aveva cattive intenzioni». Akram stesso affrontò gli sconosciuti che parlavano perfettamente arabo. «Chi siete, domandai ai due uomini, e uno di loro rispose: Non preoccuparti, a Rammun ci conoscono tutti ma io volevo saperne di più e chiesi la loro carta di identità. A quel punto i due tirarono fuori le armi e fecero fuoco». I tre fratelli Shawakha rimasero feriti, Rashad spirò in ospedale il 2 aprile. Qualche giorno dopo si seppe dai giornali israeliani che i due «sconosciuti» erano militari in esercitazione dell’unità Dovdovan, formata da mistaravim, ossia soldati travestiti da palestinesi. Il 24 aprile, su insistenza di B’Tselem, l’Esercito ha aperto un’inchiesta ma da allora non ha fornito particolari sull’andamento delle indagini. «Pensavamo fossero dei ladri, loro non ci hanno mai detto di essere soldati» ha commentato con amarezza Akram Shawakha.
Le esercitazioni delle unità speciali israeliane nei villaggi palestinesi sono sempre frequenti, denuncia la ong Yesh Din. Nonostante i pericoli crescenti per i civili. «Da quando la Cisgiordania è più calma, l’esercito ha intensificato il training nelle terre occupate», rivela da parte sua Yehuda Shaul, uno dei fondatori di «Breaking the silence», una organizzazione di ex militari che hanno scelto di «rompere il silenzio». «Si scelgono i villaggi (palestinesi) meno coivolti nella rivolta (contro l’occupazione) e quindi meno pericolosi per i soldati, è un fenomeno in crescita», aggiunge Shaul. In queste ore tremano gli abitanti di Aqabah, dove l’esercito sta svolgendo un’esercitazione. «Sappiamo che in altri villaggi chiedono alle popolazioni di abbandonare le proprie case per alcune ore, fino al termine delle manovre. Ma nel nostro caso tutto ciò non è avvenuto e ci siamo ritrovati all’improvviso sotto coprifuoco», riferisce Adel, un abitante di Aqabah.
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