Tolstoj in Cecenia: più guerra che pace

Negli ultimi anni della vita, Tolstoj scrisse quello che è forse il suo capolavoro sconosciuto: Chagi-Murat. Ritornò al tempo della sua giovinezza, quando combatteva nel Caucaso: raccolse una vastissima documentazione sulla espansione russa nel Sud attorno al 1850; e compose un libro misto di storia e di romanzo, una specie di Guerra e pace del Caucaso. Non saprei dire se Chagi-Murat sia un racconto o un romanzo. Tolstoj raccolse molti temi narrativi: dallo zar Nicola I agli oscuri combattenti ceceni, che fuse, modulò, intrecciò con un’arte della polifonia che ricorda i suoi grandi romanzi.

Negli ultimi anni della vita, Tolstoj scrisse quello che è forse il suo capolavoro sconosciuto: Chagi-Murat. Ritornò al tempo della sua giovinezza, quando combatteva nel Caucaso: raccolse una vastissima documentazione sulla espansione russa nel Sud attorno al 1850; e compose un libro misto di storia e di romanzo, una specie di Guerra e pace del Caucaso. Non saprei dire se Chagi-Murat sia un racconto o un romanzo. Tolstoj raccolse molti temi narrativi: dallo zar Nicola I agli oscuri combattenti ceceni, che fuse, modulò, intrecciò con un’arte della polifonia che ricorda i suoi grandi romanzi.
Appena apriamo Chagi-Murat, ci rendiamo conto: «Ecco, questo è Tolstoj». È una energia, una vitalità, una intensità, che non troviamo, forse, in nessun altro scrittore moderno. Non abbiamo mai incontrato queste luci: la luce vivida delle stelle, che sembrano appese alle cime degli alberi, sfavillando tra il nodo dei rami; il plenilunio, che investe tutte le strade, in modo che ogni pietruzza, ogni filo di paglia, ogni pallottola di sterco risaltano innaturalmente visibili; il sole mattutino, che scintilla dappertutto sulle foglie appena sbocciate, sulla fresca, vergine erba, sulle increspature del fiume rapidissimo. Non abbiamo mai visto gli occhi dei montanari ceceni, lustri come more mature, o simili a quelli degli agnelli: non abbiamo mai ascoltato questa sinfonia allegra di voci, di urla, di sguardi accesi, di spari di carabine urlanti e crepitanti come cose vive; non abbiamo mai conosciuto quest’aria fresca, pulita e trasparente, che rende vicinissime le grandi catene nevose.
Ci diciamo: è un miracolo. In realtà questo miracolo suppone un metodo infallibile e naturale. Davanti a qualsiasi sensazione, Tolstoj non usa quasi mai l’aggettivo o il verbo o l’espressione pertinenti: usa un aggettivo o un verbo singolari, che colpiscono l’oggetto di scorcio o alle spalle. Il soldato ferito guarda intorno i malati, «ma si sarebbe detto che non ci vedesse o vedesse qualche altra cosa, che lo meravigliava»; questa cosa è la morte, che si sta impadronendo di lui. Tolstoj non si accontenta: non gli basta dire che la morte meraviglia il soldato ferito; ripete questa espressione una, due, tre volte, a distanza di tre righe o di una pagina, in modo da dare risalto — un risalto quasi epico — all’espressione singolare. Così il narratore non è più un architetto di parole: è un occhio, fitto insieme nelle cose e alto nei cieli; guarda le cose per la prima volta; si stupisce davanti a loro; le ripete, le ordina, le rappresenta; e alla fine riesce a suscitare lo stesso grado di vitalità che le cose hanno nel mondo o un grado ancora accresciuto.
In testa alla quinta compagnia, che combatte in Cecenia, cammina in giubbone nero e la sciabola a spalle un ufficiale alto, Butler, che sta provando una vivida impressione di gioia, di vitalità, e insieme di rischio mortale, e un desiderio d’azione e il senso di far parte di un complesso immenso diretto da un’unica volontà. È la seconda volta che Butler esce a combattere. Pensa che da un momento all’altro avrebbero cominciato a sparargli addosso e lui non solo non avrebbe curvato la testa al passare della granata o fatto caso al fischiare delle pallottole, ma avrebbe eretta più alta la testa e con, un sorriso negli occhi, avrebbe guardato i colleghi e i soldati e si sarebbe messo a parlare, col tono più indifferente del mondo, di tutt’altro argomento. Butler viene da Pietroburgo, dove ha subito una tale perdita al gioco, da restare senza un soldo. Ma, adesso, l’ha dimenticato. La sua, adesso, è una vita completamente diversa. Gli sono caduti di mente il suo dissesto e i suoi debiti non pagati. E il Caucaso, la guerra, i soldati, gli ufficiali, questi eroi ubriaconi e bonari, il maggiore Pjetròv, tutto gli pare così bello e così eccitante, che certe volte non crede di trovarsi qui, in questo paese esotico, tra i veterani caucasici.
Per quanto strano possa sembrare, l’altro lato della guerra non si presenta affatto alla mente di Butler. Non esistono, per lui, né morti né ferite dei soldati, degli ufficiali e dei montanari. Non vuole guastare la sua poetica rappresentazione della guerra. Così evita costantemente di guardare i morti e i feriti. Si trova a passare accanto a un cadavere che giace supino: ma soltanto con la coda dell’occhio vede «non so che strano atteggiamento di una mano di cera e il rosso cupo di una chiazza su quel capo».
Quando hanno inizio i brindisi, i compagni di Butler escono via dal pranzo ebbri non solo del vino tracannato, ma anche del loro entusiasmo guerriero. Butler è ubriaco e cede al suo vecchio vizio. Malgrado la parola che aveva dato ai suoi fratelli e a se stesso, riprende in mano le carte. Dopo un’ora, rosso, sudato, tutto sporco di gesso, sta puntellato sul tavolo con tutt’e due le braccia; e bada a scrivere, sotto le carte tutte gualcite, la cifra delle sue poste. Ha perso tanto, che ormai ha paura di calcolare quant’è segnato a suo carico. Anche senza fare il calcolo, sa già che, sborsando intiero lo stipendio e il prezzo del suo cavallo, non sarebbe riuscito a pagare tutti i suoi debiti.
Michaìl Sjemjònovic Vorontzòv è il comandante supremo dell’esercito in Cecenia: è un uomo di educazione europea; ambizioso, malleabile, affabile con i sottoposti e sottilmente cortigiano nei rapporti coi superiori. Egli non concepisce la vita senza il potere di alcuni e la sottomissione di altri. Nel 1852, ha più di settant’anni, ma è ancora freschissimo, alacre nei movimenti e, sopratutto, nel pieno possesso del suo duttile, sottile e amabile ingegno. La sera del 4 dicembre 1852 riceve un corriere, che gli porta una notizia importantissima: il famoso Chagi-Murat, uno degli eroi ceceni, secondo solo a Shamil, è passato dalla parte dei russi. Il principe entra nella sala del palazzo, dove una trentina di invitati lo attende per cena. Indossa la sua solita giubba nera, senza spalline, con la croce bianca appesa al collo. Seduto al centro della tavola, scintillante di vanità nascosta, racconta ai commensali la sorprendente novità.
Se nella prima parte del racconto, abbiamo visto Chagi-Murat coi nostri occhi, ora ne sentiamo parlare alla tavola di Vorontzòv, dove tutti ne magnificano il coraggio, l’intelligenza, la grandezza d’anima. È un modo per adulare il comandante supremo. Nei momenti che seguono la scena, mentre in salotto viene servito il caffè, il principe — che tutti hanno adulato — diventa singolarmente affabile con tutti. Si siede a giocare a carte: pone accanto a sé la tabacchiera d’oro col ritratto di Alessandro I: poi la scoperchia e fa quello che è solito fare quando si sente particolarmente ben disposto; tira su, con le mani bianche raggrinzite dalla vecchiaia, un pizzico di tabacco francese, se lo porta al naso, e se ne cosparge le narici.
***
Molto, molto più in alto del principe Vorontzòv, sta lo zar, Nicola I, al quale Tolstoj dedica un ritratto di grandiosa ferocia. Il primo gennaio 1852, incontra Cernysòv, il suo ministro della guerra. Nicola ha una lunga faccia bianca dall’enorme fronte prominente: una faccia singolarmente fredda e senza moto: la mattina di quel primo gennaio, gli occhi, sempre opachi, hanno uno sguardo più opaco del solito; le vecchie labbra e le guance inflaccidite gli conferiscono un’espressione di scontento e di collera. Lo zar suscita negli altri terrore e, per quanto sia abituato, questo terrore gli riesce ogni volta piacevole e, di tanto in tanto, prende gusto a meravigliare gli altri, immersi nel terrore, rivolgendo loro parole cordiali. Quella mattina lo zar discorre con Cernysòv intorno alla defezione di Chagi-Murat e ad altre vicende politiche. Per ragioni personali, è scontentissimo; e si mette a pensare quello che ogni volta gli restituisce la calma: quale grand’uomo egli sia. «Sì, che cosa sarebbe, senza di me, la Russia! Sì, che cosa sarebbe senza di me, non la Russia soltanto, ma l’Europa».
La continua, impudente adulazione ha ridotto lo zar al punto che non s’accorge delle proprie contraddizioni; e non sottopone mai le sue azioni e le sue parole al vaglio della realtà, della logica o del buon senso di sempre. È fermamente persuaso che tutte le disposizioni impartite da lui, per quanto insensate ed erronee, divengano giuste e ben ponderate solo perché è stato lui ad impartirle. Con lo sguardo senza vita, col petto sporgente in avanti e col ventre serrato stretto che aggetta al di sopra e al di sotto della cintura, egli compare davanti ai suoi cortigiani; sente che tutti gli sguardi, con trepida servilità, stanno fissi su di lui e assume un aspetto ancora più solenne. Quando gli occhi s’imbattono in visi conosciuti, si ricorda di questo e di quello: si sofferma; e a volte in russo, a volte in francese, pronuncia qualche parola: poi ascolta quello che gli altri timorosamente rispondono, investendoli col suo freddo sguardo senza vita.
La colpa di tutti i misfatti che si compiono in Russia, in Polonia e nel Caucaso è di Nicola I: ma, nello stesso tempo, egli ha la convinzione, pienamente sincera, non solo di non essere un malfattore, ma di essere il benefattore del suo popolo e del genere umano. Come può essersi stabilita nell’anima di quell’uomo — si chiede Tolstoj — questa oscurità spaventosa? La risposta di Chagi-Murat è la stessa di Guerra e Pace. «Si tratta di un’eterna, indubbia legge, a nome della quale chi sta ai fastigi della grandezza mondana deve essere un uomo pervertito. Tali sono stati e sono tutti i potenti e in misura tanto più grande quanto più dispotica è la loro potenza». Dopo ventisett’anni di regno, Nicola afferma che il potere gli è gravoso. È una manifesta menzogna; perché ama il potere con tutte le forze della sua anima. Eppure dopo ventisett’anni del suo terribile regno, questa menzogna è diventata una dura, espiatrice realtà. Il potere è per lui un peso schiacciante e tremendo.
***
Lontanissimo da Pietroburgo, nelle libere montagne e campagne della Cecenia, sta Chagi-Murat, l’eroe leggendario, simile, dice Tolstoj, a un cardo cremisino «in pieno sboccio». Cavalca in testa ai suoi montanari uno stallone dalla criniera bianca, con indosso una bianca circassa, e in testa un turbante e nella mano armi damaschinate in oro. È straordinariamente sciolto, flessibile, leggero: sia che cavalchi sia che monti improvvisamente a cavallo. Ha sempre fiducia nella sua buona stella. Qualunque progetto modelli, è fermamente sicuro che gli riuscirà. Tutto gli sorride. Mentre si avvicina al comandante russo Poltoràtzkij, gli dice qualcosa in tartaro. Inarcando le sopracciglia, l’ufficiale allarga le braccia per dare ad intendere che non capisce; e sorride. Chagi-Murat risponde con un sorriso al sorriso, e quel sorriso colpisce Poltoràtzkij per il suo aspetto di bontà quasi infantile. Si aspettava di vedere un uomo burbero, brusco, lontanissimo da lui e invece gli sta dinanzi un uomo semplicissimo, che sorride con un sorriso buono, come se fosse un suo vecchio conoscente.
Chagi-Murat ha una sola cosa singolare: gli occhi — aperti ben larghi —; gli occhi intenti, che penetrano in quelli degli altri. Gli sguardi mutano: quando incontra il principe Vorontzòv, assumono un’espressione severa e grave. Quando va a teatro, contempla con indifferenza gli spettatori, gli ufficiali in sfolgoranti uniformi, le ballerine con le gambe muscolose, le donne giovani e non più giovani, che denudano i colli, le braccia e i seni. Infine gli occhi guardano attentamente uno per uno e si direbbe che non vedano nessuno. Solo così, con questo sguardo assente, Chagi-Murat riesce a intuire con una precisione estrema, quasi animalesca, le sensazioni e sentimenti di tutte le persone che incontra.
Nelle ultime pagine del grande racconto, Chagi-Murat abbandona i russi, per i quali aveva abbandonato i compagni ceceni. Con pochi montanari, fugge a cavallo verso le montagne. Ma è circondato da due squadroni di soldati russi. Sibilando e rompendo, i proiettili delle carabine stroncano fronde e rami attorno a Chagi-Murat e ai suoi compagni. Una pallottola lo colpisce al fianco sinistro. È una ferita mortale; ed egli sente la vita lasciarlo. Ricordi e immagini — il principe Vorontzòv, il figlio Jusuf, la moglie Sofiat — gli attraversano la mente, senza suscitare in lui nessun sentimento, né di rimpianto né di rancore né un desiderio qualsiasi.
Sono tutte cose talmente minuscole, a confronto di ciò che era già incominciato dentro di lui: è quasi lo stesso sentimento che, in Guerra e pace, attraversava la mente del principe Andrej, che guardava il cielo «immensamente alto e immensamente quieto», dopo la battaglia di Austerlitz. Risuonano parecchi colpi. Chagi-Murat cade. Poi riprende a muoversi. Prima si solleva la testa insanguinata, senza berretto: poi si solleva il busto; e infine, aggrappandosi a un albero, egli si alza in tutta la sua statura. Il suo aspetto è così spaventoso che i soldati russi si arrestano. Ma a un tratto Chagi-Murat è scosso da un tremito, vacilla scostandosi dall’albero e, come un cardo reciso dalla falce, cade bocconi senza muoversi più.

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