DOCUMENTA 13. All’esposizione di Kassel, curata quest’anno da Carolyn Christov-Bakargiev, l’impegno è in primo piano. Pratiche di resistenza, che non sempre sanno evitare gli stereotipi All’ingresso di Documenta 13 stanno i grandi atri vuoti di Ryan Gander, artista inglese divenuto celebre per la reinvenzione delle pratiche espositive e il corteggiamento dell’Assenza: l’esposizione si avvia polemicamente, contestando l’eccesso di produzione e la riduzione delle opere a merce. Iniziative rilevanti stanno pure alla periferia del campo visivo del visitatore.
DOCUMENTA 13. All’esposizione di Kassel, curata quest’anno da Carolyn Christov-Bakargiev, l’impegno è in primo piano. Pratiche di resistenza, che non sempre sanno evitare gli stereotipi All’ingresso di Documenta 13 stanno i grandi atri vuoti di Ryan Gander, artista inglese divenuto celebre per la reinvenzione delle pratiche espositive e il corteggiamento dell’Assenza: l’esposizione si avvia polemicamente, contestando l’eccesso di produzione e la riduzione delle opere a merce. Iniziative rilevanti stanno pure alla periferia del campo visivo del visitatore. In primo luogo: quest’anno Documenta si disloca. Si tiene anche a Kabul, a Alessandria e Cairo e a Banff, in Canada. Propone progetti educativi e artistico-artigianali. Articola la propria attività: non semplice «evento» o contenitore di eventi, ma agenzia formativa e di cooperazione culturale, agenzia di redistribuzione. Basta questo a connotare l’edizione curata da Carolyn Christov-Bakargiev nel senso dell’«impegno» e della mutualità. C’è un gran desiderio di «contenuti» politici e di consacrazione dell’arte sul piano della testimonianza. La mostra è molto ampia e sin troppo disparata, per esigenze che appaiono a tratti contingenti. Cerchiamo dunque di selezionare e riconoscere la costellazione di artisti che danno senso a questa Documenta.
Il Vuoto, il Niente, il Fil di Voce
Gander è il primo che incontriamo: la sua installazione è una semplice alterazione del Vuoto o del Niente. Una brezza persistente soffia nei saloni di rappresentanza al piano terra del Fridericianum: è la sola traccia di intervento. Il titolo dell’installazione è sibillino e si presta a più interpretazioni: Ho bisogno di qualche significato da memorizzare (la pulsione intangibile). Nella Rotonda, ad attenderci, una (breve) monografica di Giorgio Morandi: inattesa e perciò tanto più incisiva. Nature morte e un paesaggio, la veduta del cortile di via Fondazza. Poi, esposti in vetrina, alcune brocche impiegate dal pittore e una raccolta di libri dedicati a Maestri della storia dell’arte antica e moderna. Chardin e Cézanne. Sono i primi libri che incontriamo nel corso dell’esposizione: ve ne sono molti.
A pendant delle composizioni morandiane un testo di Francesco Matarrese, artista concettuale già autore di radicali scelte antisistema (abbandona la professione all’inizio degli anni Settanta), interprete del «rifiuto profondo». Che Morandi e Matarrese si fronteggino nel contesto della mostra, o meglio dialoghino tra di loro, appare rivelatorio: resta praticabile, sostiene Matarrese nella Sfida, «una linea di voce, un filo di voce flebile» che si opponga al «dispositivo commerciale» dell’arte. Potremmo interpretare Morandi come questo «filo di voce», la testimonianza resa sulle soglie del silenzio e della scomparsa, l’intreccio più plausibile di estetico e politico? Christov-Bakargiev lo fa: pur distaccandosi dalle retoriche macho-guevariste dell’«impegno» anni Sessanta (non a caso assenti, in mostra, molti tra i poveristi), costruisce l’epica della sua Documenta su pratiche di resistenza che gli artisti sono, a suo avviso, elettivamente chiamati a interpretare.
Nuove burocrazie
C’è nostalgia di «buone intenzioni» e di eroismi culturali? In larga parte sì, a quanto pare. Colpisce l’atteggiamento didascalico: considerata nel suo insieme, infatti, Documenta 13 sembra funzionare come testo scolastico ipersemplificato che elenca conflitti, «svolte, disastri, catastrofi e crisi» da punti di vista spesso prevedibili, con argomenti ridotti o frammentari e «buoni e cattivi» a portata di mano. Recuperiamo per un istante il titolo di Gander: può sembrarci una maliziosa parodia dell’arte intesa come manualistica ad uso sociale, dispositivo didattico conforme alle istanze pedagogiche e autopromozionali di amministrazioni progressiste, tecnica della memoria pianificata e condivisa.
L’opera come pretesto di rammemorazione e «discorso», semplice gancio. Questo rischia in effetti di essere oggi Kassel, con scelte curatoriali che chiamano insidiosamente gli artisti a muoversi sullo stesso piano delle burocrazie politico-culturali. Emergono certo punti di vista scettici, ironici o semplicemente dislocati. Susan Hiller raccoglie cento canzoni politiche di resistenza e rivoluzione in un juke-box, quasi a cogliere la distanza storica di momenti di eroica mobilitazione sociale. Andrea Büttner svolge un’indagine complice sulle Piccole Sorelle di Gesù, un ordine femminile istituito nel 1936 da Magdeleine Hutin. Ma persino Salvador Dalì si trova arruolato tra i pianificatori sociali con quadri datati agli anni della guerra di Spagna. La sua presenza in mostra può sorprendere, appare tuttavia funzionale, pur se tra fraintendimenti o distorsioni ideologici, al dispiegarsi di convinzioni curatoriali sull’artista come produttore di allegorie storico-politiche.
Nodi in vetro e libri di marmo
Hassan Kahn e Michael Rakowitz si prestano bene, per più versi, a interpretare i propositi di Christov-Bakargiev. L’artista egiziano congiunge plastica e video in un’installazione che riflette sui microconflitti del quotidiano e insieme concede alle ragioni dell’eleganza formale: il suo Nodo in vetro colpisce per intensità metaforica. Rakowitz propone una riparazione virtuosa traducendo in marmo alcuni tra i preziosi volumi andati distrutti nell’incendio della Biblioteca dei Langravi di Kassel-Assia nel settembre 1941 (l’incendio fu causato da un bombardamento britannico). In vista di Documenta, Rakowitz ha incaricato alcuni artigiani di Carrara e Kabul di scolpire il travertino che si estrae dalle colline di Bamiyan, rese celebri dai grandi Buddha del sesto secolo distrutti dai talebani. Nelle teche che accompagnano l’installazione figurano resti dei volumi parzialmente bruciati nell’incendio e frammenti dei Buddha stessi. Accade anche altrove, nella mostra, che vestigia e rovine non perdano status di opera a seguito della distruzione sofferta, anzi potenzino il loro senso simbolico: non lontano dalle tele di Morandi incontriamo parti di oggetti diversi in bronzo, vetro, avorio e terracotta provenienti dal museo nazionale di Beirut e danneggiati al tempo della guerra civile.
Arte «pubblica» e storiografia
L’artista americano Geoffrey Farmer presenta un’installazione-collage con immagini tratte dalla rivista Life (dal 1935 al 1985). L’installazione è una sorta di contributo visivo al Grande Romanzo Americano, e al tempo stesso esemplifica un’attitudine New Dada o Pop nei riguardi della Storia: depoliticizzata, questa è scompaginata e ridotta a Citazione, Personaggio, Icona, Logo. Un’assemblea patinata di «Celebrities». Accade qualcosa del genere ai molti eventi tragici richiamati in mostra, ridotti a ready-made con atteggiamento tra il precocemente nostalgico, l’opportunistico e il predatorio? Non sempre, non necessariamente (segnaliamo per riservata eleganza l’installazione di Emily Jacir, Ex libris, dedicata ai circa trentamila libri sottratti dagli israeliani ai palestinesi nel 1948): ma non ci sentiamo di escluderlo. Nel contesto di una discussione sull’arte pubblica, quale Documenta propone sempre di essere, non può mancare una riflessione critica sui rapporti tra arte e storiografia, è chiaro: ma è insufficiente ricordare fuggevolmente un avvenimento o prelevare un’impronta, un calco dell’Evento per contribuire significativamente al processo collettivo di elaborazione del Trauma o del Lutto.
In mostra con l’installazione dedicata al processo agli esponenti di Autonomia operaia, detto del 7 aprile, Rossella Biscotti ha conosciuto importanti riconoscimenti critici per il lavoro sugli archivi e il contributo alla svolta politica e postetnografica nell’arte italiana delle più giovani generazioni. Passeggiamo tra i calchi in cemento dell’aula bunker di Roma, oggi distrutta; e indoviniamo sbarre, sedute, scale. Una voce registrata fuoricampo ci riporta al dibattimento in aula mentre un’interprete in scena traduce in tedesco deposizioni e rogatorie. Processo è stato importante nell’avviare una riflessione sull’arte italiana più recente e le difficoltà a situarsi autorevolmente in senso storico e politico. Al tempo stesso occorre dire che le retoriche monumentali sembrano cristallizzare narcisisticamente il Lutto, tramandarlo in modo dogmatico attraverso le generazioni e disimpegnare da iniziative storiografiche esperte e distaccate (quali ad esempio alcuni storici italiani trenta-quarantenni hanno da tempo e con merito avviato sugli «anni di piombo»). Un eccesso di formalismo non giova ai processi di empowerment: sociali o generazionali.
Nell’installazione La riparazione dall’Occidente alle culture extraoccidentali dell’artista franco-algerino Kader Attia, tra le più commentate di Documenta, una serie di giganti teste lignee dai tratti grotteschi è esposta su scaffali metallici assieme a testi di etnografia coloniale e primitivismo modernista. Le culture «altre», questa la tesi di Attia, potevano essere apprezzate da esteti, snob e conoscitori della prima metà del Novecento solo a condizione di mostrare Purezza Etnica e Primordialità Tribale. Processi sociali, politici e economici di comunità o nazioni extraoccidentali erano deliberatamente trascurati. Quello che potremmo chiamare il pregiudizio etnografico modernista è stato ampiamente riconosciuto e contestato negli studi postcoloniali o nell’etnografia postmoderna: Attia non avrebbe alcuno scoop da intestarsi, in altre parole. Al contrario: può trarre vantaggio da cognizioni diffuse e mutazioni di gusto preparate da tempo. Ma il suo atteggiamento non è di modesto divulgatore. L’installazione si completa con fotografie di feriti della prima guerra mondiale sfigurati dagli interventi di chirurgia plastica successivi al trauma. Attia propone le immagini delle vittime come esemplificazioni di una pratica di dominio che causa guerra e distruzione e al tempo stesso si propone di dissimulare la propria rovinosità attraverso «riparazioni» insultanti.
Le teste deformi di La riparazione sono in effetti immagini potenti di umiliazione: corrispondono alle immagini dei soldati feriti e partecipano al riscatto di un’antiestetica del corpo subalterno. Se avvicinate sul piano storico, tuttavia, smentiscono in parte l’indignazione antioccidentale enunciata dall’artista in brevi testi e comunicati stampa per rivelarsi inventivi remakes di busti caricaturali di primo Novecento (di Duchamp-Villon ad esempio). Potremmo legittimamente affermare che Attia, lungi dal discostarsi dalle ambivalenze dell’estetismo modernista, pratica forme sofisticate di appropriazione e usa il «ricatto culturale» come tecnica pubblicitaria. Per quanto giovane, Attia non è un outsider: attorno alla sua produzione di opere monumentali si concentrano gli interessi di gallerie commerciali tra le più callose del continente.
Europa o della Colpa
Documenta nasce come iniziativa pedagogica nella Germania del dopoguerra, in una città devastata dai bombardamenti perché sede di industria militare in epoca nazionalsocialista. Intende operare sul piano politico e culturale, portare un contributo decisivo all’occidentalizzazione della Germania e al tempo stesso ripristinare una connessione vivente con la tradizione dell’umanesimo classico tedesco. Persino l’apertura all’espressionismo astratto americano, che caratterizza le prime edizioni di Documenta, si iscrive in un progetto di ricostruzione continentale e pone domande sul destino politico e culturale europeo nel contesto della guerra fredda e della contrapposizione tra blocchi.
Non troviamo alcuna traccia di una domanda sull’Europa in questa edizione di Documenta. Un’immaginazione geopolitica archeologica e elementare, per più versi anni Settanta, traccia continuamente, in mostra, la demarcazione tra Buoni e Cattivi, Occidente e Terzo-mondo, Americani e Vietcong, dissolvendo differenze e consolidando stereotipi, non importa se lodevoli. Ha senso, in giorni che potrebbero preludere a una tragica disgregazione economica e politica, considerare l’Europa solo come continente di Accumulazione e Dominio, tralasciando di considerarne la vulnerabilità politico-istituzionale? Mancare (da parte di una Documenta che intende finalmente collocarsi nel «futuro digitale») di sollecitare una svolta che ci porti oltre la routine della Denuncia? L’investitura dell’artista come Testimone degli Orrori della Storia, per quanto scolasticamente benjaminiana, manca di riconoscere quanto gli artisti stessi abbiano potuto partecipare, in decenni recenti, alla dilapidazione di un’eredità culturale di Intransigenza e Non Conformismo: ma è ben per questo che l’intreccio tra arte e attivismo appare oggi questione enormemente complicata.
Grandi Outsider Modernisti
Dobbiamo a Amy Balkin il progetto più persuasivo sul piano dell’impegno (ambientale) esposto a Documenta: la formale richiesta che l’Unesco riconosca l’atmosfera come patrimonio dell’umanità. Non è casuale, considerate le mille aporie della contemporaneità, che alcune tra le sezioni migliori della mostra siano però dedicate a retrospettive (non di rado postume) di outsider del Movimento moderno. Le piccole composizioni a olio di Etel Adnan raccontano di un esercizio quotidiano della pittura vissuto come gioioso rituale e rimandano, con le predilezioni per ampie aree non descrittive di colore, a «sintetismi» primo-Novecento tra la Francia dei Nabis e la Monaco del Cavaliere azzurro; e a De Staël. Pacifista e membro del partito comunista norvegese nel corso degli anni Trenta, Hannah Ryggen (1894-1970) ha commentato l’attualità internazionale degli anni Trenta, come l’ascesa del Partito nazionalsocialista o la guerra mussoliniana in Etiopia, in arazzi di lana e lino morfologicamente caratterizzati da volti-maschera alla Klee.
Margaret Preston (1875-1963) e Emily Carr (1871-1945) ci introducono invece al Modernismo di aree periferiche come l’Australia degli anni Trenta e Quaranta: il vigoroso riconoscimento promosso dalle due pittrici per la cultura nativa è tra i contributi più toccanti dell’esposizione, riaffiorante anch’esso da un lontano passato prebellico e prefinanziario. Chine, pastelli e disegni di Metzger mostrano infine i limiti di un apprendistato controverso e faticoso tra tradizione figurativa europea e espressionismo astratto americano. Risalenti agli anni compresi tra 1945 e 1959-1960, rifiutati dall’artista, tornano adesso visibili con qualche concessione di troppo alle fluttuazioni di data.
Immagine e parola
Un’ultima considerazione sui rapporti tra arte e ricerca, di cui si fa un gran parlare a Kassel. Documenta si muove spesso sul confine che separa immagine e parola. Perché allora oltrepassarlo da un lato solo della recinzione? Sono molti gli artisti invitati che praticano textwork. Emerge inoltre dall’esposizione il proposito della curatrice di riscrivere la storia delle neoavanguardia italiana dal punto di vista della poesia visiva. Vorremmo esortare a una maggiore audacia. Appare riduttivo mostrare apprezzamento per gli sconfinamenti che vengono da una sola parte, mantenendo inalterata la demarcazione tra «artisti» e «critici»: come considerare Emilio Villa o Carla Lonzi (e ci limitiamo al solo caso italiano), autore l’uno di calligrammi, l’altra di un volume-collage innovativo come Autoritratto, se non dal punto di vista di una precoce vanificazione della differenza? Sappiamo bene che acutezza testuale e interrogazione socratica sono (per antonomasia) tecniche di «scultura sociale».
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