Più arsenali e meno granai, la crisi non ferma la lobby bellica

IL FATTURATO DELLE GUERRE . Durante questi primi cinque anni di crisi internazionale, la ricetta dei tagli alla spesa pubblica (per ridurre il debito) è stata al centro delle politiche e delle richieste avanzate dalle istituzioni internazionali, dai governi dei paesi più forti e dai mercati finanziari. Nell’elenco delle spese pubbliche da ridurre sono entrate le pensioni, l’istruzione, il sistema sanitario, il trattamento dei dipendenti pubblici, i servizi sociali. Quasi mai o solo di sfuggita sono state inserite nell’elenco le spese militari.

IL FATTURATO DELLE GUERRE . Durante questi primi cinque anni di crisi internazionale, la ricetta dei tagli alla spesa pubblica (per ridurre il debito) è stata al centro delle politiche e delle richieste avanzate dalle istituzioni internazionali, dai governi dei paesi più forti e dai mercati finanziari. Nell’elenco delle spese pubbliche da ridurre sono entrate le pensioni, l’istruzione, il sistema sanitario, il trattamento dei dipendenti pubblici, i servizi sociali. Quasi mai o solo di sfuggita sono state inserite nell’elenco le spese militari.

Eppure nel mondo si spendono ogni anno più di 1.600 miliardi di dollari per le armi: la riduzione del 10% a livello globale della spesa militare avrebbe liberato risorse necessarie a fermare la speculazione in Grecia e si sarebbe potuto salvare il paese dal crac finanziario senza ulteriori conseguenze per l’Europa e l’economia mondiale. Ma la strada scelta è stata un’altra, complici la resistenza della lobby bellica, della casta dei militari, degli interessi consolidati di una parte del mondo politico nel business militare. È la ragione, non l’unica, di tante guerre degli ultimi 20 anni: tenere fiorente l’industria e il mercato delle armi, legittimare il potere della casta politico-militare, consolidare la costruzione di un sostanziale unipolarismo incentrato sul ruolo della Nato.
In Italia, si spende troppo per le forze armate: troppi sprechi, troppe spese inutili, troppi privilegi per una casta che in questi anni ha saputo ben difendere i propri interessi corporativi e rinviare quella necessaria riforma della difesa che manca da troppo tempo. Doveva essere la crisi economica a scoperchiare la pentola. Il ministro della difesa Di Paola ha ammesso in qualche modo la necessità di una riduzione di alcuni costi (in particolare per il personale: si è parlato di una riduzione programmata di 30mila unità in 10 anni) in modo tale da avere più capitale da investire nell’efficienza (cioè armi) delle forze armate. Il ministro-ammiraglio se la prende comoda: ha detto che ci vorranno 10 anni. Per mandare a casa gli operai della Irisbus e della Thyssen bastano poche ore, per ridurre il numero di generali due lustri. E poi in realtà bisognerebbe ridurre almeno il doppio di quanto previsto da Di Paola.
È paradossale che mentre le sofferenze sociali per la crisi economica stanno ancora crescendo in modo esponenziale, i generali del nostro paese si dilettino a spendere questa montagna di soldi in “giochi di guerra” che niente hanno a che vedere con un’idea di “difesa sufficiente” coerente con l’art. 11 (l’Italia ripudia la guerra) e l’art. 52 (ruolo nazionale e democratico delle forze armate) della nostra Costituzione. Meglio sarebbe risparmiare questi soldi, evitando sovrapposizioni e moltiplicazioni di sistemi d’arma – fortunatamente! – non utilizzati e magari già in possesso di paesi alleati: uno spreco inutile. Mai come in questo momento bisognerebbe “svuotare gli arsenali e riempire i granai”.

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