Per il ministro del Lavoro la disoccupazione non è mai involontaria, il sindacato può essere espulso dall’azienda se non vi si sottomette, e l’amministratore delegato della Fiat non ha violato alcuna regola
Per il ministro del Lavoro la disoccupazione non è mai involontaria, il sindacato può essere espulso dall’azienda se non vi si sottomette, e l’amministratore delegato della Fiat non ha violato alcuna regola Concludendo la sua intervista, la ministra Fornero ha spiegato al giornale di Wall Street che l’Italia «non è un paese basato sulle regole; si manipolano, si tirano di qua e di là, aggiustandole secondo le proprie convenienze. Questo deve finire». Si riferisce a Marchionne che, quanto a regole, ha in odio anche il «folclore italiano» delle sentenze dei giudici? Non fatevi illusioni. Marchionne è per il ministro del lavoro al di sopra di ogni sospetto. La manipolazione è evidentemente tipica di chi pretende che un posto di lavoro sia un diritto, «mentre deve essere guadagnato, anche attraverso i sacrifici».
Dietro l’avventatezza delle affermazioni, si può intravvedere una posizione teorica. La disoccupazione non è mai involontaria, ma dipende dalle condizioni alle quali i lavoratori sono disposti a lavorare. Evidentemente, fra queste condizioni c’è anche quella di non iscriversi a un sindacato che contesta gli accordi imposti dall’azienda. A un normale lettore può apparire una posizione ideologica spropositata sia del ministro che di Marchionne. Ma dobbiamo ricordarci che Fornero parla a un giornale americano per il quale questa è la norma.
Marchionne non inventa nulla. Cerca solo di importare in Italia il modello di relazioni industriali americano. Il quale si basa su due principi. Il primo è che il sindacato deve essere fuori dai luoghi di lavoro; il secondo è che se vi è presente, deve sottomettersi alle richieste dell’azienda.
Quanto al primo principio, l’esclusione del sindacato è ormai una pratica comune. Naturalmente non è stato sempre così. In passato, se i sindacati potevano far valere l’iscrizione del 50 per cento più uno dei lavoratori di un’unità produttiva, acquisiva automaticamente la loro rappresentanza e il diritto alla contrattazione. Era la famosa legge Wagner voluta nel 1935, in pieno New deal, da Franklin D. Roosevelt. Poi fu modificata nel senso che l’azienda poteva chiedere un referendum di conferma. Le cose non cambiarono, e il sindacato divenne progressivamente il più forte nel mondo. Non a caso John K. Galbraith lo descrisse come un pilastro del sistema economico americano nel suo celebre saggio del 1968, “Il nuovo Stato industriale”.
Le cose cambiarono con l’avvento di Ronald Reagan che diede l’esempio licenziando in tronco i 12.000 lavoratori addetti alla regolazione del traffico aereo, e spiegando che i lavoratori in sciopero potevano essere sostituiti da altri non affiliati ai sindacati. Le imprese apprezzarono il cambiamento e misero in atto le misure necessarie a impedire che i lavoratori potessero mettere piede nelle aziende tramite la pratica referendaria. Il management convocava i lavoratori in assemblea senza la presenza di sindacalisti e spiegava che l’ingresso del sindacato in fabbrica avrebbe comportato la sospensione degli investimenti, la delocalizzazione di parte dell’impianto e i conseguenti licenziamenti. Naturalmente, non mancavano i militanti che si esponevano, rivendicando il diritto a costituire il sindacato, ma era un’auto-candidatura al licenziamento.
Ma veniamo al secondo principio. Dove il sindacato c’è, al momento del rinnovo contrattuale, l’impresa presenta una propria contro-piattaforma. In un contesto nel quale il sindacato è ridotto a una rappresentanza del sette per cento dei lavoratori del settore privato, e non esistendo contratti collettivi nazionali, il management ha il coltello dalla parte del manico. Le piattaforme aziendali comprendono generalmente due rivendicazioni: un secondo livello salariale più basso per i nuovi assunti, la riduzione o l’annullamento dell’assicurazione sanitaria per tutti, oltre al cambiamento del sistema pensionistico di carattere integrativo.
Con la crisi l’attacco alla contrattazione è diventato ancora più duro e determinato. Sono sempre più numerose le aziende che interrompono i negoziati per il rinnovo dei contratti e attuano la serrata. Scriveva recentemente il New York Times: «I lavoratori americani sindacalizzati, colpiti dai licenziamenti e dalla stagnazione dei salari, si confrontano con un altro fenomeno che li costringe sempre di più sulla difensiva: le serrate… Lo scorso anno, almeno 17 imprese hanno imposto la serrata, affermando che l’avrebbero mantenuta fino a quando i lavoratori non avessero accettato il contratto proposto dal management».
L’esempio più clamoroso è quello dell’American Crystal Sugar, la più grande impresa americana di trasformazione dello zucchero da barbabietola con stabilimenti in North Dakota, Minnesota e Iowa. Nell’estate del 2011, l’azienda, in occasione del rinnovo del contratto, chiese come contropartita la riduzione del salario aziendale per i nuovi assunti, il ricorso all’esternalizzazione di parte del lavoro e una drastica riduzione dell’assicurazione sanitaria. Il 95 per cento dei lavoratori respinse l’accordo sottoposto a referendum il 31 luglio; il 1° agosto l’azienda dichiarò la serrata, lasciando senza lavoro e senza salario 1300 lavoratori. Nelle settimane successive, aprì, attraverso la stampa, una campagna di reclutamento per l’assunzione a tempo determinato di 900 lavoratori in sostituzione di quelli esclusi dal lavoro.
I lavoratori del North Dakota hanno cercato di ottenere una forma d’indennità di disoccupazione sull’esempio degli altri stati dove è presente l’azienda. Ma il governatore del Dakota che è repubblicano ha negato l’indennità. Al tempo stesso, l’amministratore delegato, David Berg, sulla base dei crescenti profitti registrati dall’azienda, intascava alla fine del 2011 un compenso di 2,4 milioni di dollari. Dieci mesi dopo l’inizio della serrata, e dopo ripetuti tentativi di negoziato da parte del sindacato che non mutano nella sostanza la posizione aziendale, il 23 giugno scorso si è svolto un nuovo referendum tra i lavoratori. Il referendum (è il terzo) si è concluso col rigetto da parte dei lavoratori delle condizioni poste dall’azienda.
La serrata continua, mentre la produzione continua con lavoratori non iscritti al sindacato. David Berg aveva spiegato agli azionisti alla fine dell’anno scorso che non bisognava cedere: «Si tratta di un cancro che bisogna estirpare», aveva affermato. Carla Kennedy, trentenne che fa parte dei 1300 che l’azienda è impegnata a mettere in ginocchio, finora senza riuscirvi, ha ricordato in un’intervista come è cominciato tutto: «Il mio ultimo turno di lavoro di notte era cominciato la sera del 31 luglio. Mi dissero di smettere a mezzanotte. Incontrai il capo del reparto che mi prese per un braccio e mi disse: per te qui non c’è più lavoro».
Marchionne – vale la pena di ripeterlo – non inventa nulla. Ha in mente un certo modo di organizzare la fabbrica, di americanizzare i rapporti di lavoro, e cerca di applicarlo. Quella applicata a Pomigliano è una serrata selettiva. Si riferisce solo a una parte dei lavoratori. Stranamente (per lui), un giudice ha osato mettersi di mezzo. Eppure quello che Marchionne si sforza di fare è molto semplice, cambiare un certo modo d’essere del mondo del lavoro, una certa concezione dei diritti e della dignità dei lavoratori, un certo modello di comportamenti. Come ha detto la ministra del lavoro nella sua intervista al Wall Street Journal: «Questa riforma (del lavoro) non è perfetta… ma per gli italiani è anche una scommessa sulla possibilità di cambiare per molti versi i loro comportamenti».
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