Il mistero della nomina del «mediatore» Di Maggio

PALERMO — Il nodo da sciogliere — come diceva il consigliere giuridico del Quirinale nelle conversazioni intercettate con l’ex ministro Mancino, ma anche negli interrogatori ai pubblici ministeri che indagano sulla presunta trattativa fra Stato e mafia — resta la nomina dell’ex magistrato Francesco Di Maggio al vertice della direzione generale delle carceri: vicecapo del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. A quella carica Di Maggio arrivò nel giugno 1993, mentre capo divenne l’anziano giudice Adalberto Capriotti, in sostituzione di Nicolò Amato.

PALERMO — Il nodo da sciogliere — come diceva il consigliere giuridico del Quirinale nelle conversazioni intercettate con l’ex ministro Mancino, ma anche negli interrogatori ai pubblici ministeri che indagano sulla presunta trattativa fra Stato e mafia — resta la nomina dell’ex magistrato Francesco Di Maggio al vertice della direzione generale delle carceri: vicecapo del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. A quella carica Di Maggio arrivò nel giugno 1993, mentre capo divenne l’anziano giudice Adalberto Capriotti, in sostituzione di Nicolò Amato.
È un periodo cruciale nella ricostruzione fatta dagli inquirenti sul presunto patto tra boss e rappresentanti delle istituzioni, un cambio della guardia che prelude alla mancata proroga di oltre 300 decreti di «41 bis», cioè il carcere duro per i detenuti accusati di mafia, deciso dal ministro della Giustizia Giovanni Conso nel successivo autunno. Perché Di Maggio andò lì con un decreto ministeriale sui generis, che lo fece uscire dalla magistratura e forse perdere un po’ di soldi in busta paga? Chi ce lo mise? E con quali prospettive?
È quello che i pm di Palermo hanno cercato di capire, senza trovare risposte convincenti. Nell’atto conclusivo dell’indagine Di Maggio figura come uno dei «mediatori» della trattativa, insieme all’allora capo della polizia Parisi: fossero vivi, sarebbero entrambi indagati insieme agli ex ufficiali dei carabinieri Mori e De Donno, e a politici come Mannino e Dell’Utri. Perché secondo gli inquirenti anche lui contribuì all’allentamento del «41 bis» preteso dai mafiosi per interrompere la catena di stragi e delitti eccellenti. E chissà che non si riferissero a questo problema, al fatto di dover sottostare a quella decisione «politica» le discussioni anche accese, fino a sfociare in liti, tra Di Maggio e il ministro Conso, di cui ha riferito l’ex capo del Dap Capriotti. Oggi indagato, come Conso, per presunte false dichiarazioni proprio sui motivi di alcune mancate proroghe di «41 bis».
Dagli alti funzionari che all’epoca lavoravano al ministero della Giustizia, non sono arrivati lumi. «Non mi sono mai occupata della nomina del dottor Di Maggio a vicecapo del Dap — ha detto l’ex capo di gabinetto Livia Pomodoro, oggi presidente del Tribunale di Milano, nell’interrogatorio del 15 dicembre scorso — e quindi nulla posso riferire… Non mi risultano, e quindi nulla posso riferire, contrasti fra il dottor Di Maggio e il ministro Conso, e in particolare non ho mai assistito ad alterchi, né a colloqui burrascosi».
Liliana Ferraro, la collaboratrice di Falcone che ne prese il posto alla direzione degli Affari penali dopo la strage di Capaci, ha riferito: «Con Capriotti credo che Di Maggio non fosse molto in sintonia, perché Capriotti, diceva Di Maggio, non aveva un carattere molto deciso per prendere provvedimenti forti; col ministro Conso francamente non mi ricordo, non mi pare di ricordare. A poco a poco forse la sintonia che c’era prima cambiò, ma questo con l’andare del tempo. Ma che io non mi ricordo un contrasto così…».
A proposito della nomina di Di Maggio, Loris D’Ambrosio che pure lavorava al ministero al tempo delle stragi, ha detto: «Credo che tutto sia nato tra Pomodoro e Ferraro, cioè Pomodoro-Ferraro-Di Maggio», ma dalle testimonianze delle due funzionarie chiamate in causa, cioè Pomodoro e Ferraro, non risulta. Il nodo di quella nomina, dunque, non è stato sciolto. In realtà Di Maggio sarebbe dovuto approdare al ministero quando Falcone era ancora vivo, nonostante tra i due ci fossero stati dissidi soprattutto dopo il fallito attentato dell’Addaura (al quale Di Maggio, all’epoca in servizio presso l’Alto commissariato antimafia, non fece mistero di non dare molto credito). Poi, morto Falcone, arrivò al Dap. «Per quello che ha detto a me — ha spiegato Liliana Ferraro — era convinto che non solo bisognava trovare gli assassini di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ma che quello era il momento per sconfiggere Cosa Nostra, e che le carceri avevano un’importanza molto grande, nel senso che sul carcerario bisognava lavorare molto».
Un sostenitore convinto del «carcere duro», insomma; amico di Mori e di altri carabinieri come Subranni e Bonaventura, passato al servizio segreto militare. Tuttavia, a fine ottobre ’93, ci furono le mancate proroghe dei «41 bis» per oltre trecento detenuti. Decise da Conso «in solitudine», ha detto l’ex ministro, ma in realtà suggerite da un appunto firmato da Capriotti (che però non ricorda chi e perché glielo fece firmare) subito dopo il suo arrivo.
Nell’elenco di coloro che furono ammessi a un regime di detenzione più morbido figurano tre capimandamento mafiosi come Antonino Geraci, Giuseppe Gaeta e Giuseppe Farinella, rispettivamente responsabili delle cosche di Partinico, Caccamo e San Mauro Castelverde. Ci sono poi altri nomi noti alle cronache come Vito Vitale, Giovanni Prestifilippo, Francesco Scrima e Francesco Spadaro. In tutto, i mafiosi veri o presunti di un certo livello che sfuggirono al «carcere duro» — secondo un’analisi svolta dalla Direzione investigativa antimafia — sono venti. A essi vanno aggiunti dieci appartenenti ai clan della camorra, nove esponenti della ‘ndrangheta e sei della Sacra corona unita pugliese. In totale 45 detenuti «con qualifiche apicali». Che siano pochi o tanti, nell’ottica della trattativa che avrebbe portato a questo risultato, dipende dai punti di vista.

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