Un intervista con lo scrittore statunitense Michael Connelly
Dopo la feroce rivolta di venti anni fa, Los Angeles è ancora lo specchio infranto della società americana
Un intervista con lo scrittore statunitense Michael Connelly
Dopo la feroce rivolta di venti anni fa, Los Angeles è ancora lo specchio infranto della società americana
«Le fratture razziali, economiche e sociali che correvano sotto Los Angeles erano salite in superficie con l’intensità di un sisma. Quattro agenti di polizia accusati di aver picchiato un nero dopo un inseguimento ad alta velocità, erano stati ritenuti non colpevoli da una giuria tutta di bianchi. Presto la città fu in fiamme». Nell’anno che segna il ventesimo anniversario della più vasta rivolta urbana della storia degli Stati Uniti, quella scoppiata nella metropoli californiana nella primavera del 1992, Michael Connelly, lo scrittore che ha fatto di questa città il cuore pulsante dei propri romanzi, sceglie di indagare il tempo e le ragioni di quegli eventi.
In The Black Box, che uscirà alla fine dell’anno, il detective Harry Bosch cerca di far luce sull’omicidio di una giovane donne mentre tutto intorno Los Angeles va letteralmente in frantumi.
Approdato alla letteratura dopo anni di lavoro nella redazione di «nera» del Los Angeles Times e presentato spesso come l’erede di Raymond Chandler, a Connelly si deve fin dagli anni Novanta una sorta di reinvenzione dell’hard boiled attraverso l’adozione di un registro narrativo solo in apparenza classico, ma in realtà passato al setaccio proprio del lavoro giornalistico, minuzioso nei dettagli come diretto nella forma.
Tra gli autori americani più letti e tradotti in tutto il mondo – oltre cinquanta milioni di copie vendute dei suoi romanzi, una ventina, che in maggioranza hanno come protagonista Bosch, poliziotto rude ma con il cuore di un adolescente -, Connelly ha partecipato nelle settimane scorse a Roma al Festival Letterature e ha presentato Il respiro del drago (pp. 356, euro 19,90), appena uscito, come i precedenti per la casa editrice Piemme, un’indagine di Harry Bosch sul mondo della mafia cinese.
Los Angeles, vent’anni dopo la rivolta. La città ha mai dimenticato quella ferita?
Direi proprio di no. Credo che quella rivolta pesi ancora molto nella memoria della città. Ma soprattutto credo che siano ancora presenti fino in fondo le ragioni che fornirono il combustile a quell’enorme incendio.
In realtà quello che doveva essere il sogno di Los Angeles non ha mai smesso di andare a fuoco nel corso degli ultimi vent’anni. I rapporti tra le diverse comunità che vivono nella metropoli californiana sono migliorati, il tasso di criminalità è sceso, ma la ferita del 1992 non si è mai davvero rimarginata e questo proprio perché le ragioni sociali che furono alla base di quegli eventi sono ancora in qualche modo presenti.
Una volta ha detto che ogni suo romanzo è un po’ una lettera d’amore a Los Angeles. Che cosa rappresenta per lei questa città?
Los Angeles è l’ultimo approdo di quanti non sono riusciti o non hanno potuto realizzare altrove i loro sogni. Per me è ancora un simbolo fortissimo di cosa può voler dire provare a cambiare la propria vita. La città è da sempre al centro del mio lavoro, ma credo che sia in qualche modo anche al centro di tutto quello che succede negli Stati Uniti. È qui che nascono gran parte delle nuove tendenze che poi si diffonderanno nel resto del paese. Perciò osservare bene questa città significa in qualche modo capire che cosa accadrà in futuro all’intera società americana.
Però ne «Il respiro del drago» Harry Bosch lascia, anche se per poco, Los Angeles per Hong Kong e si misura con la comunità cinese non senza scoprire in sé un’ombra di pregiudizio verso la cultura orientale. Questo confronto difficile sembra rimandare alla Los Angeles del 92 e al quesito su come vivere insieme tra diversi che accompagna da sempre la democrazia americana.
Per definire il personaggio di Harry Bosch mi sono ispirato a molte persone che ho realmente conosciuto. Tra loro, quelle che avevano fatto l’esperienza della guerra in Vietnam conservavano ancora, malgrado fossero passati decenni, forti pregiudizi e preconcetti nei confronti di tutti gli orientali. Così, quando Harry si trova a lavorare fianco a fianco con dei detective di origine cinese a Los Angeles, o si sposta ad Hong Kong e collabora con la polizia locale, emerge in lui un atteggiamento di sospetto di cui non è nemmeno consapevole, della cui esistenza prende coscienza pian piano, sorprendendosene per primo. Alla fine per lui tutto ciò ha un peso emotivo molto forte, si traduce in una sorta di dramma personale che lo fa mettere a confronto con una parte di sé che decisamente conosce poco e ama ancor meno. Parlo per Harry, ma questo suo aspetto riflette una condizione di spirito che ho osservato in molti.
Il modo di operare della polizia l’ha affascinata prima come giornalista e poi come scrittore: si interroga mai su cosa rappresenti in generale il tema della «sicurezza», così centrale nella vita pubblica in Europa come negli Usa?
È’ vero che mi interessa da sempre capire e descrivere come funziona, o spesso non funziona, tutto questo meccanismo. Ma ciò che mi sta più a cuore è come le cose sono vissute dai singoli individui, il modo in cui ciascuno interpreta il proprio ruolo e sente dentro di sé le motivazioni per ciò che sta facendo.
Sono sempre stato affascinato dall’attività dei poliziotti, parlo di chi indaga sui crimini violenti, e credo che facciano un lavoro davvero molto nobile. È come se sottoscrivessero una sorta di accordo con cui si impegnano a svolgere un incarico che è molto difficile da portare a termine, e soprattutto da portare a termine nella maniera giusta: se lo fanno, nessuno dice niente perché è il minimo che ci si possa attendere da loro, se invece le cose non vanno bene, la cosa è in prima pagina su tutti i giornali. E di questo sono consapevoli. Come lo è Harry Bosch che sembra ricordare sempre che sulle auto della polizia è scritto: «Siamo qui per proteggere e servire».
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