Il default dell’economia di carta

La crisi ha reso evidente il fallimento delle teorie fondate sul libero mercato. Occorre un forte ridimensionamento della finanza e il rilancio di politiche che favoriscano l’occupazione, accettando anche l’ipotesi di bancarotte pilotate. Solo così si possono porre le basi per salvare l’Europa. Un’intervista con Giovanni Dosi, l’economista in odore di Nobel

La crisi ha reso evidente il fallimento delle teorie fondate sul libero mercato. Occorre un forte ridimensionamento della finanza e il rilancio di politiche che favoriscano l’occupazione, accettando anche l’ipotesi di bancarotte pilotate. Solo così si possono porre le basi per salvare l’Europa. Un’intervista con Giovanni Dosi, l’economista in odore di Nobel

La crisi morde. Investe l’economia reale, sconvolgendo la vita quotidiana di milioni di donne e uomini in balia di un futuro che definire incerto non rende giustizia alla situazione. A un anno di distanza dal ciclo di interviste sulla crisi apparsa su «il manifesto» riprendiamo il filo di quel discorso con la riflessione di uno degli economisti più rinomati del circuito internazionale, Giovanni Dosi. Le parole di Dosi invitano a pensare fuori degli schemi usuali mettendo in luce gli squilibri di un’eccessiva finanziarizzazione e di una distribuzione del reddito che in termini di diseguagliaza ricorda sempre più quella delle società medioevali. Di fronte a questo poco edificante quadro di riferimento Dosi propone soluzioni che potrebbero, a torto, apparire utopistiche. La carica radicale insita nel suo pensiero lo porta a ritenere vane le ipotesi fin qui avanzate per uscire dalla più grave crisi economica mai affrontata. Contrario a una cura fatta di privatizzazioni e dismissioni del patrimonio statale, Dosi propone di ridurre il grado palesemente abnorme di finanziarizzazione dell’economia attuando una strategia opposta: intervento statale nei settori industriali strategici, defaults pilotati (e con essi, quasi inevitabilmente, nazionalizzazione degli istituiti di credito )
Che cosa ci ha insegnato di importante la crisi iniziata nel 2007 che prima non sapevano?
Ad alcuni ha insegnato cose che già si sapevano: che le crisi sono strutturali e inerenti alla dinamica del capitalismo. Ai rappresentanti della teoria standard, che da tempo avevano accantonato l’idea, lo ha semplicemente ricordato. Cionondimeno, i più fanatici dell’economia neoclassica si ostinano a non riconoscere la situazione attuale come una crisi: sostanzialmente ritengono che il fenomeno con il quale ci stiamo confrontando è un semplice shock d’offerta. Per loro la disoccupazione non esiste! L’ortodossia economica è fermamente convinta che nel lungo periodo – e in assenza di frizioni – il mercato sia in grado di generare piena occupazione. Questa è una idea profondamente radicata anche se contraddetta da tutta la storia del capitalismo. Se questa non è una follia, possiamo considerarlo come un rifiuto di fare i conti con la realtà. Altri economisti, apparentemente più ragionevoli, pensano che sia un fenomeno eccezionale ed esogeno. Questi ultimi non sembrano comprendere che l’attuale situazione altro non è che il risultato di una dinamica trentennale di espansione del settore finanziario accompagnata dalla deregolamentazione della finanza stessa. Sono stati proprio questi due ultimi fattori i detonatori della crisi.
Recentemente lei ha dichiarato che si dovrebbero salvare le banche e non i banchieri, attraverso un processo di nazionalizzazione degli istituti di credito. Può approfondire il concetto?
Ritengo che sia giunto il momento di rilanciare politiche keynesiane capaci di farci uscire da questo equilibrio cattivo con tanta disoccupazione, riportandoci in una situazione di equilibrio buono non lontano dalla piena occupazione. Per fare ciò, occorre ridimensionare le proporzioni tra finanza ed economia reale. In che modo? Da una parte con la tassazione. Dall’altra, soprattutto in paesi come l’Italia, la Spagna e la Grecia ristrutturando il debito allungandone la scadenza e offrendo tassi molto più bassi. In altre parole affontare quello che oggi i tecnici chiamano riprofiling, sostanzialmente una parziale bancarotta, che avrebbe effetti molto positivi (basti pensare all’Argentina che ha ricominciato a crescere dopo aver fatto una tale operazione). Questo implicherebbe un duro colpo alle banche e alle istituzioni finanziarie in generale che andrebbero almeno in parte nazionalizzate. Nazionalizzando la parte sana (prestiti e depositi) si lascerebbero i banchieri con il cerino in mano. Una volta sanati gli squilibri, si potrà poi riprivatizare. Non c’è nulla di strano in questo ragionamento; tale operazione fu fatta in Svezia da un governo di destra agli inizi degli anni Novanta del Novecento. Anche in Italia non sono mancati casi simili. Basti ricordare il caso del Banco Ambrosiano: ai vecchi azionisti furono lasciati gli asset decotti mentre la parte sana venne nazionalizzata.
Un hair-cut (taglio di capelli) della finanza internazionale sarebbe altamente desiderabile non solo per il nostro paese ma anche per l’intero sistema economico internazionale. Il principale beneficio che se ne trarrebbe sarebbe quello di ristabilire una proporzione meno patologica tra settore finaziario e economia reale riportandola ai livelli degli anni Settanta.
La domanda che in molti si pongono è se l’Italia possa attuare una tale strategia senza uscire dall’euro. In tutta franchezza io credo che la risposta sia affermativa. Il nostro paese ha un attivo primario per cui al netto del debito non ha bisogno di andare sul mercato dei capitali. Ovviamente la nazionalizzazione di cui si parlava prima deve avvenire garantendo i piccoli risparmiatori (che comunque detengono direttamente solo circa il 7-8% di tutto il debito italiano).
Nel secolo scorso, Oskar Lange, Abba Lerner, James Meade, sebbene con sottili differenze tra loro, sostennnero l’idea di distribuire ad ogni cittadino un «Dividendo Sociale». Oggi alcuni economisti eterodossi propongono di istituire un reddito di cittadinanza. Lei ritiene che possa essere proposto un «dividendo sociale»?
In questa fase storica ritengo più fattible il reddito di cittadinanza che non il dividendo sociale proposto nella prima metà del secolo scorso da alcuni socialisti fabiani. Bisogna però riscoprire il ruolo della tassazione. Quando sono invitato a parlare in America ricordo a chi mi ascolta che hanno avuto un presidente «comunista», Eisenhower, che portò la tassazione marginale al 92 per cento. Quello, a mio giudizio, è il livello di tassazione cui si dovrebbe andare vicino, perché è fortemente redistributivo e perché ha un effetto di deterrenza. Facciamo un esempio. Una delle questioni più dibattute al momento è quella dei bonus milionari distributi ai managers come parte del loro stipendio. Se quei bonus fossero tassati al 92 per cento credete che continuerebbero a darseli?
Un grosso problema, è che tutto ciò è incompatibile con la globalizzazione. Come dice bene Dani Rodrick c’e una sostanziale incompatibilità tra globalizzazione, sovranità nazionale e democrazia. A una delle tre bisogna rinuciare. Da parte mia aggiungerei l’eguaglianza nella distribuzione del reddito. Salvare il «modello sociale europeo» richiede un maggiore controllo dei movimenti di capitale (soprattutto quelli a breve e brevissimo termine). A questo scopo servirebbe l’introduzione della Tobin Tax. Il controllo dovrebbe anche spingersi agli spostamenti delle merci. Se non si adotterà una tale strategia il rischio è di perdere il nostro caro modello di Welfare State. Per salvarlo, dobbiamo tenere in Europa una buona fetta della produzione che può pagare alti salari, che è quella industriale, tipicamente caratterizzata da rendimenti crescenti e alti livelli occupazione. L’idea che le nostre pensioni o la nostra salute vengano pagate dagli operai cinesi o indiani non mi sembra molto ragionevole.
Uno dei maggiori, se non il principale dei problemi attuali riguarda la disoccuparzione e in particolare quella giovanile. Quali riforme potrebbero favorire una maggiore occupazione?
Anche per quanto riguarda la disoccupazione giovanile è necessario fare politiche pesantemente reflattive, cioè che favoriscono l’espansione della domanda senza troppo curarsi del debito pubblico. Naturalmente sarebbe fondamentale adottare una simile strategia a livello europeo. Sfortunatamente, chi governa il vecchio continente si ispira a una dottrina economica che ritiene inaccettabile lo sfondamento sul debito nemmeno per salvare il welfare state. Ovviamente, la storia insegna che questo lo si può fare per la guerra. E come se dicessero che non si può fare keynesismo sociale ma bellico si. Se non vado errato alla fine della seconda guerra mondiale gli Usa uscirono con un deficit del 120 per cento del debito sul Pil – più o meno come è oggi quello italiano – ma nessuno se ne preoccupò. La grande sfida di oggi è pensare ad un keynesismo amico dell’innovazione, verde, e molto redistributivo con un aumento molto significativo della tassazzione soprattutto sui redditi alti e patrimoni ed una dimimizione delle tasse sui redditi più bassi. Una sorta di «turbo» socialdemocrazia. Dico questo pur sapendo che ciò rimarrà solo una mera speranza almeno fino a quando l’Europa sara’governata da questa classe politica.
Ovviamente un modo alternativo per liberarsi il debito è permettere un po’ di inflazione. Ma questo è impossibile che avvenga fino a quando la teoria economica dominante continuerà ad influenzare le scelte dei nostri leaders politici. Essa ritiene che, a parità di altre condizioni, se si aumenta l’offerta di moneta aumenta il livello dei prezzi. Con una capacità produttiva non interamente utlizzata e con disoccupazione questo non succede. Bisognerebbe, inoltre, facilitare l’aumento dei salari a partire dalla Germania. La cosa ridurrebbe il gap concorrenziale tra i paesi del Nord e quelli del Sud Europa.
In un recente speciale dell’«Economist» dedicato al «capitalismo di stato» veniva sottolineato il fatto che le economie al momento più forti hanno tutte una forte componente di controllo statale sulle attività industriali centrali. Come potrebbe declinarsi una politica industriale per il bene collettivo del nostro paese, mirata cioè alla riduzione del debito pubblico e alla creazione di nuovi posti di lavoro?
Per quanto riguarda il ruolo dello Stato nell’attività industriale, esso varia da paese a paese. Credo che in quelli tecnologicamente più deboli sia assolutamente necessario. In Italia avevamo fiorenti industrie «high-tech» – dalla farmaceutica all’elettronica alla chimica fine – che abbiamo distrutto o svenduto. Non credo che per recuperare le posizioni perse si possa fare a meno dello Stato. Anche se in maniera soft, senza fare carrozzoni politicizzati come la vecchia Iri, lo Stato deve interveniere direttamente. Si noti che lo Stato ha un ruolo fondamentale anche nei paesi sulla «frontiera tecnologica» come gli Usa. L’elettronica americana nonché le grandi infrastrutture come Internet originano negli sforzi militari e spaziali . Ma anche attività che sembrano «di mercato» in realtà hanno una forte componente pubblica. Si prenda il venture capital, cioè l’apporto di capitale di rischio da parte di un investitore per finanziare la crescita di nuove attività in settori ad elevato potenziale di sviluppo. Qual è il più importante venture capitalist degli Stati Uniti? Il governo federale.
Detto questo, non mi sento affatto ottimista. Il nostro paese è condannato a non cresere per almeno altri 10 anni. Per ripagare gli interessi sul debito continueremo ad affrontare salassi incredibili a fronte di un reddito stagante se non in caduta. Peggio di così non potrebbe andare. Dati questi livelli di reddito e questa disoccupazione mi sorprende solo che ci sia così poco conflitto sociale. Ce ne vorrebbe molto di più. Il problema di fondo è che non esistono più attori sociali capaci di legittimarlo. Se la politica latita, i movimenti anche quando emergono tendono ad essere effimeri.

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Tra innovazione e proprietà intellettuale

Il nome di Giovanni Dosi, uno dei più prestigiosi economisti Italiani, viene spesso accostato a quello delpremio Nobel Joseph Stiglitz . Attualmente è docente di economia alla Scuola Sant’Anna di Pisa. Presso la Columbia University(New York), è co-direttore delle «task forces Industrial Policy e Intellectual Property Rights», all’interno del programma «Initiative for Policy Dialogue» presieduto da Stiglitz. Inoltre è editor per l’Europa della rivista «Industrial and Corporate Change». I temi della sua ricerca spaziano dall’economia dell’innovazione e del cambiamento tecnologico alla crescita e lo sviluppo economico, dalle dinamiche industriali alla teoria dell’impresa. Dosi è autore di numerosi saggi e articoli apparsi sulle più importanti riviste internazionali. Una selezione dei suoi contributi scientifici è stata ripubblicata nel volume «Innovation, Organization and Economic Dynamics. Selected Essays» (Cheltenham, Edward Elgar, 2000) ed un secondo volume è in corso di stampa.

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