La biografia del medico dei matti che ha cambiato la realtà . L’anticipazione Un brano dal libro di Oreste Pivetta, da oggi in libreria, dedicato alla vita dello psichiatra che chiuse i manicomi e propose uno sguardo diverso su follia e umanità
La biografia del medico dei matti che ha cambiato la realtà . L’anticipazione Un brano dal libro di Oreste Pivetta, da oggi in libreria, dedicato alla vita dello psichiatra che chiuse i manicomi e propose uno sguardo diverso su follia e umanità
Oreste Pivetta, Franco Basaglia, il dottore dei matti, pagine 287, euro 17,00 Dalai Editore
Da oggi in libreria la biografia corale del medico, dell’intellettuale e di un ventennio di grandi ideali. Franco Basaglia, che ha cambiato la psichiatria e il nostro rapporto con la follia, è stato uno dei personaggi più importanti nella storia della cultura e della società italiana. A trent’anni dalla sua morte la sua figura, il suo lavoro e la famosa legge che ha portato alla chiusura dei manicomi continuano a far discutere. Ce lo racconta Oreste Pivetta
FRANCO BASAGLIA, LO PSICHIATRA, IL DOTTORE DEI MATTI, RESTA UNO DEI PERSONAGGI PIÙ IMPORTANTI NELLA STORIA DELLA CULTURA E DELLA SOCIETÀ ITALIANA. Un personaggio che ha suscitato attorno alla propria opera un amplissimo consenso, ma anche molte critiche, consenso e critiche tutt’altro che esauriti, legati a una legge, la 180, ancora conosciuta come legge Basaglia, che condusse alla chiusura dei manicomi e che fu approvata nel 1978, pochi giorni dopo il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro nel portabagagli della Renault rossa parcheggiata in via Caetani (e pochi giorni prima dell’approvazione di un’altra importante ma contestata legge, quella sull’interruzione della gravidanza).
Dopo una fortunata adolescenza a Venezia, Franco Basaglia visse la sua storia tra l’antifascismo, le speranze del dopoguerra, lo studio, l’avvio di una possibile carriera universitaria, la direzione degli ospedali psichiatrici, a Gorizia, a Parma, quindi a Trieste, infine per breve tempo a Roma. Visse all’interno dei grandi mutamenti che coinvolsero la società e la cultura italiane, in particolare in un periodo che s’aprì nel segno dei governi di centrosinistra e si chiuse con i governi di solidarietà nazionale, tra grandi lotte operaie e studentesche, tra le bombe stragiste e il terrorismo, che contrastarono una spinta riformista, che si esaurì negli anni Ottanta e che mai più sarà ritrovata.(…)
Basaglia, il «filosofo» (così lo chiamava con evidente ironia, il primo maestro, il professor Giovanni Battista Belloni, il biologista direttore della clinica di Padova), nutriva un’autentica passione per Sartre, che varie volte aveva incontrato. Si capisce tanta attenzione, tenendo conto del continuo lavorio attorno al tema della libertà del filosofo francese, alla sua idea di impegno culturale, immaginando sempre «quell’uomo condannato a essere libero». Mi stupisce, invece, che Basaglia non abbia mai preso in considerazione, neppure un cenno, il «rivale» algerino di Sartre, meno riconosciuto dalla moda del tempo ma alla fine mi sembra più intellettualmente longevo e per noi necessario, cioè Albert Camus, lo «straniero», un altro isolato, emarginato, straniato, per conseguenza delle sue origini, francese sì, di genitori francesi, ma nato in Nordafrica.
L’uomo in rivolta di Camus, la rivolta che è «secolare volontà di non subire» nella lotta al male (…) sembrerebbe offrire spunti di riflessione a un combattente come Basaglia, che incontra invece un altro intellettuale, legato alla vicenda algerina e alla lotta di liberazione algerina, Frantz Fanon. Quasi coetaneo, nato nel 1925 in un’altra colonia (la Martinica), figlio di antichi schiavi, Fanon diventa psichiatra, prima di scrivere un libro di culto nel nostro Sessantotto, I dannati della terra. La «rivolta» è anche di Fanon: prima individuale nella sua isola di fronte all’arrogante presenza francese, poi collettiva in terra di Francia nella resistenza contro il nazismo, poi nel manicomio di Blida, in Algeria, contro la doppia condanna che colpiva gli internati, malati mentali e colonizzati, la doppia espropriazione dei diritti.
Fanon lascia l’ospedale, per entrare nel Fnl, il Fronte nazionale di liberazione algerino: lui, ci ricorderà Basaglia, ha potuto scegliere la rivoluzione, noi per ragioni evidenti ne siamo impediti. Ma la rivolta può seguire altre strade e comunque una: quella di una continua riconsiderazione in senso etico e in senso politico del proprio lavoro, qualunque sia la circostanza.
È un dubbio personale, quello sul mancato incontro con Camus, quasi solo una curiosità, che conta ovviamente poco e che soprattutto non indebolisce la certezza che Basaglia sia stato un grande intellettuale, come si intende in genere, e cioè intellettuale in virtù delle letture e delle frequentazioni, degli studi approfonditi, della comprensione e dell’elaborazione. Ma credo che lo sia stato anche in un senso ben più alto, come s’usa poco dalle nostre parti italiane, e non solo per quanto aveva imparato da Gramsci, ma soprattutto per
quanto aveva arricchito, nel «lavoro», quel suo sapere critico di valori morali e per quanto aveva messo in pratica. Chi vorrà leggere questo libro, mi auguro possa capire quanto quella parola, «pratica», contasse per Basaglia e quanto, proprio per questa consapevolezza di un «dover fare», egli rappresentasse la forma e la sostanza di un intellettuale anomalo, paragonabile a pochi altri, capace di accantonare la sua dottrina, per misurarsi con la realtà senza approfittare di varchi ideologici, avvertendo l’esigenza di cambiare la realtà, quando la realtà ci fa indignare, senza neppure mai tentare di dedurre da quella «pratica» una scienza immobile e tantomeno un inventario di regole, anche quando questo procedere aveva condotto al «successo» (espressione estranea al vocabolario di Basaglia). Vengono in mente le parole di don Lorenzo Milani (citate da Adele Corradi in un libro-diario): che togliere spazio alle opere per pregare fosse una perdita di tempo, che si dovesse anche pregare tenendo conto delle circostanze e delle urgenze, che se vi fosse stata urgenza bisognasse agire, infine che «sarà urgente pregare quando a tutti sembrerà importante operare».
In questo senso mi azzardo a dire che Basaglia sia stato uno dei grandi intellettuali del secolo passato, poco considerato in fondo. Meraviglia, a proposito, che Pasolini, pur avendolo conosciuto a Gorizia, ne riferisca nei suoi scritti solo due o tre volte e sempre con una medesima, ricalcata, espressione di tre o quattro parole. Una volta scrivendo sul settimanale Tempo nel 1968, a proposito di Vietcong, definiti contadini ed «eroi».«Ho messo tra virgolette la parola “eroi”, perché come mi ha raccontato Basaglia, nel suo manicomio, una ricoverata ha detto che gli eroi sono un prodotto delle società repressive» (19 ottobre 1968). Un’altra volta a proposito di Panagulis «eroe» nella Grecia dei colonnelli, cioè nella Grecia della spietata repressione (Tempo, 7 dicembre 1968). La terza volta, per la morte di Jan Palach, esplicitamente ricordando il debito accumulato: «Nel corso di questa rubrica ho voluto citare due volte la frase di una ricoverata nel manicomio di Gorizia, diretto da Basaglia… » (Tempo, 8 marzo 1969). Beato quel popolo che non ha bisogno di eroi o sventurata la terra che ha bisogno di eroi, alla maniera di Bertolt Brecht: di eroi costretti a battersi contro il male.
Si dovrebbe contare un’altra citazione di Pasolini: quando, polemizzando con Adriano Sofri a proposito di un suo testo teatrale, Calderòn (rifacendosi a La vita è sogno di Pedro Calderón de la Barca, mutuandone i nomi e la tematica del sogno), definisce due personaggi, due medici, si chiamano entrambi Manuel, rappresentanti di una posizione «borghese gauchista», «psichiatri alla Basaglia». Con una precisazione: «I gauchisti per anni (“Gauchismo si dice in Calderòn malattia verbale del marxismo!”) hanno fatto del Potere (chiamato Sistema) l’oggetto di un transfert: su tale oggetto essi hanno scaricato tutte le colpe, liberando così, per mezzo di un meccanismo estremamente arcaico, la propria piccolo-borghese “coscienza infelice”» (Tempo, 18 novembre 1973). Non può dirsi questo per Basaglia che non può certo condividere con quegli «psichiatri alla Basaglia» quel «transfert» e quell’infelicità piccoloborghese. Basaglia ironizzava sul pessimismo degli intellettuali, esperti in legittimazione (come li definì Chomsky in Crimini di pace), stanchi e impassibili all’idea che non si possa far nulla se non scrivere libri, contrapponendo la convinzione che il cambiamento parta da noi, da un modo di essere e di fare soprattutto. L’eccentricità di Basaglia avrebbe dovuto incontrare quella di Pasolini, affini entrambi nel rifiutare la funzione fondamentale attribuita in ogni epoca agli intellettuali, orientare e disciplinare le masse, tacitarne il disagio e le nevrosi, affini entrambi nel riconoscere, su tutto, il valore della libertà.
Neppure un riferimento a Basaglia si ritrova nelle migliaia di pagine di Italo Calvino, di un anno più giovane, cronista dei suoi tempi (anche nel senso stretto di giornalista). Ma Calvino aveva paura della follia, che allontanava da sé con il silenzio.
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