Corto circuito

In un’altra era geologica – seconda metà  degli anni novanta – comparve un mensile, cugino del manifesto, chiamato Carta. Il primissimo numero conteneva due reportage: il primo, scritto da Bernard Cassen, raccontava il “bilancio partecipativo” di Porto Alegre, la città  brasiliana in cui di lì a tre anni sarebbe nato il Forum sociale mondiale; il secondo, scritto da noi, esplorava origini, intenzioni ed umanità  di un centro sociale romano, il Corto circuito.

In un’altra era geologica – seconda metà  degli anni novanta – comparve un mensile, cugino del manifesto, chiamato Carta. Il primissimo numero conteneva due reportage: il primo, scritto da Bernard Cassen, raccontava il “bilancio partecipativo” di Porto Alegre, la città  brasiliana in cui di lì a tre anni sarebbe nato il Forum sociale mondiale; il secondo, scritto da noi, esplorava origini, intenzioni ed umanità  di un centro sociale romano, il Corto circuito. I primi numeri dei giornali, si sa, sono dichiarazioni d’intenti, e in quel caso, guardando lontano e molto vicino, cercavamo di dire come si potesse ricostruire la società, fatta a brandelli da due decenni di liberismo (che ora sono tre). Nunzio, Andrea, Federico, Guido raccontavano come da un gruppo di persone di estrema sinistra – molto estrema – una decina di anni prima era nato quel luogo, incrocio di bisogni e di tentativi di soddisfarli, popolato di ragazzi ma anche di gente del quartiere, la allora nascente palestra, la rudimentale ma funzionale cucina, le sale per dibattiti. Come ha scritto Geraldina Colotti sul manifesto di ieri, atto di nascita del Corto circuito era stato un incendio, in cui era morto un ragazzo, Auro. Ora il Corto circuito è andato di nuovo in fumo, per fortuna senza provocare vittime, anche se quel che si era costruito in più di vent’anni non esiste più. Solo la palestra si è salvata.
I centri sociali li avevamo conosciuti, noi del manifesto, quando non so più quale sindaco o questore aveva emesso qualche minaccioso decreto contro questi covi di para-terroristi. Così, organizzammo un incontro in redazione in cui, con qualche diffidenza, iniziammo a conoscerci. Non c’è dubbio che in quel periodo, e per molti anni successivi, “i centri sociali” dissodarono un terreno che la sinistra politica non solo faceva fatica a coltivare ma talvolta non riusciva nemmeno a vedere. E siccome Carta nacque con quello scopo, ecco che per amici e compagni diventammo “il giornale dei centri sociali”. Non era vero, dato che intrecciavamo relazioni con molti altri, ma in fondo non ci dispiaceva.
Ho sempre avuto l’impressione che i centri sociali, incluso “il Corto”, avessero due anime che non riuscivano a trovare una conciliazione: da una parte, la vocazione a promuovere socialità, a organizzare il conflitto, certo, come sulla casa (a Roma, specialmente), ma sempre ancorandolo alle persone e alle comunità; dall’altro lato, la tentazione di “fare politica”, di scalare i gradini dal livello del suolo alle assemblee elettive, in una relazione di competizione e di alleanza con i partiti di sinistra o di centrosinistra. Ciò che portò all’elezione in consiglio comunale, a Roma, di Nunzio D’Erme e ora di Andrea Alzetta, con esiti in chiaroscuro. E dunque ora il Corto circuito è da ricostruire con l’aiuto di tutti: ne ha bisogno il quartiere, l’immensa Cinecittà, e ne ha bisogno la storia, la nostra. Ma forse ricostruire è anche l’occasione per dirsi a che punto si è, dopo un quarto di secolo e in un periodo in cui sta avvenendo quel che i centri sociali, e molti di noi, avevano – con l’aiuto degli zapatisti messicani – pronosticato da tempo: il crollo della democrazia rappresentativa.
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