CLASSI, RABBIA, ILLUSIONI ECCO UN ROMANZO SOCIALE

  Il libro d’esordio di Filippo D’Angelo, “La fine dell’altro mondo”

  Il libro d’esordio di Filippo D’Angelo, “La fine dell’altro mondo”

Leggere in termini generazionali i nuovi scrittori italiani, come si fa quasi d’ufficio, può essere fuorviante. A volte l’elemento generazionale è rivendicato dagli autori; altre volte però è un riflesso condizionato, una pigrizia di chi legge, che non aiuta a cogliere le differenze. Ad esempio, a considerare solo un “romanzo generazionale” l’esordio di Filippo D’Angelo, La fine dell’altro mondo, si imbocca una falsa pista. Certo, il protagonista ha la stessa età dell’autore, e vi si narra un momento di “perdita dell’innocenza” generazionale quasi canonico, l’estate che va dal G8 di Genova alla caduta delle Twin Towers. La quarta di copertina, poi, riporta addirittura il protagonista alle prese con «un’ideale lista di proscrizione composta di nati fra il 1945 e il 1955: (…) politicanti incapaci, imprenditori parassiti, intellettuali cialtroni». Ma il cuore del romanzo, la sua forza, è altrove. Perché
La fine dell’altro mondo (minimum fax) è anzitutto un romanzo borghese, progettato e pensato come tale. Il protagonista, Ludovico, è uno studioso ventottenne, di ottima famiglia,
odiatore di se stesso e del proprio ambiente, prossimo all’alcolismo e alla paranoia, invischiato con furiosa misoginia in relazioni sentimentali e in un platonico incesto con la sorella Umberta: ma in fondo si detesta troppo per amare qualcun altro a parte se stesso, come gli dice una sua ex a un certo punto. Intorno, Genova si blinda in previsione del luglio 2001, ma a Ludovico pare importargliene poco. Al momento, è invischiato nelle beghe universitarie. È ossessionato dall’idea che il celebre romanzo utopistico di Cyrano de Bergrac,
L’autre monde, abbia un finale alternativo, e che sia all’opera un complotto per togliergli la paternità della scoperta. Il “giallo accademico” lo guida tra Francia e Russia, ma soprattutto lo accompagna in un processo
di autodistruzione, che è nello stesso tempo una visione sempre più acuta del fallimento proprio e dei propri coetanei e padri. L’Italia di Berlusconi e di Bolzaneto gli appare sempre più «la sola nazione gnostica, la pessima fiction di un autore malvagio ».
In apparenza, si tratta dunque di un romanzo iper-italiano. Anzi, ossessionato dall’Italia. Come lo è, forse, chi la può osservare a una certa distanza. L’autore Filippo D’Angelo, 38 anni, vive infatti a Parigi, è uno studioso della letteratura dell’âge
classique,
e il suo romanzo lo lascia trasparire forse in una sorta di pan-moralismo, nell’attitudine a vedere le manifestazioni umane, pubbliche e private, come collezione di vizi e (raramente) virtù. E poco consueta negli scrittori italiani è anche l’osservazione così minuziosa delle distinzioni di classe. Ogni personaggio viene ricondotto brutalmente alle proprie radici sociali, come in un romanzo naturalista o in una messa in racconto della sociologia di Bourdieu. Le psicologie dei personaggi, i loro gesti e sentimenti, pur scandagliati in modo feroce, si rivelano l’unione di pulsioni biologiche e sociali.
La fine dell’altro mondo è massimalista fin dal titolo. Ma non ha bisogno di scomodare visioni fantascientifiche o apocalittiche, come è capitato a diversi autori italiani recenti. Piuttosto, la sua è un’“apocalisse da camera”, i cui segni, prima di confluire della violenza della repressione del G8, si trovano nelle vicende quotidiane. La radicalità sta nel tono, in una prosa che si torce verso ritmi convulsi, similitudini azzardate, ribaltamenti di prospettiva, capitomboli tra farsa e tragedia. La cosa che colpisce in questo esordiente assoluto è proprio la sapienza narrativa e linguistica: il cui modello, direi, sono la padronanza aristocratica e l’immaginazione sociologica di un Walter Siti. Pur in una costruzione da romanzo realista, in filigrana sentiamo l’autore giocare con gli stereotipi del romanzesco quasi da feuilleton: incesti e adulteri, rapporti epistolari, manoscritti rubati ed eredità impreviste e un certo gusto delle descrizioni. Il modello stesso del romanzo di formazione è in fondo capovolto in un paradosso. Perché qui si tratta di un “giovane vecchio”, delle illusioni perdute di un disilluso.
Ma il romanzo, pur coltissimo, non tende alla citazione esplicita. I suoi nonni potrebbero essere Moravia e Soldati; ma con una rabbia in più, un rapporto più agonistico ed esacerbato coi propri personaggi. Specialmente verso il protagonista, antieroe col quale il narratore tende spesso a identificarsi. Un personaggio che ricorda certe figure di Houellebecq, ma che ha pochi parenti in Italia: magari, certi giovani dei film di Bellocchio e Bertolucci, mezzo secolo fa. Però la rabbia che un tempo era dei vent’anni ora la troviamo, già impastata di amarezza, nei quarantenni. E mentre nella piccola borghesia, che si crede il centro del mondo, le distinzioni di classe non vengono più percepite, tra i ricchi esse rimangono ben nitide nei loro contorni e nel loro peso. In questo senso, D’Angelo è, come molti scrittori veri, un traditore della propria classe, in nome di un individualismo rabbioso e a suo modo
romantico.
Il cuore di questo romanzo nichilista, con un protagonista «prossimo a impersonare una strana caricatura lingustica del maudit», è un conato di giustizia senza speranza. In questo, è vero, molti italiani delle ultimi generazioni e non solo, potranno leggervi i destini recenti loro e dei loro anni, ma senza facili identificazioni, senza alibi.

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