BREVE STORIA DELLA POLITICA OSSESSIONATA DAL CONSENSO

Così le classi dirigenti hanno sempre di più cercato compromessi rinunciando ai progetti

Così le classi dirigenti hanno sempre di più cercato compromessi rinunciando ai progetti

La politica non è sempre stata così impopolare come oggi. Nei primi trent’anni della repubblica essa ha goduto di grandi consensi. Anche allora i partiti si procuravano in modo illegale una parte delle loro risorse, ma quella disinvoltura non scuoteva la fiducia in essi riposta. Tale favore era l’effetto non solo della qualità delle
élites politiche, ma anche del fatto che, soprattutto a partire dagli anni Sessanta, nel paese si era prodotto un forte spostamento degli equilibri a favore di figure sociali fin allora escluse dal sistema delle protezioni e delle garanzie. Non è quindi difficile capire perché la politica fosse circondata da un alone così favorevole: essa aveva permesso alle masse, come si usava dire, di “entrare nello stato” attraverso la porta dei diritti e non solo attraverso quella dei doveri.
Ma fu proprio la politica ad arrestarsi di fronte al compito che quello spostamento dei rapporti di forza avrebbe richiesto. Per rendere stabile un mutamento di tale portata tutto il sistema avrebbe dovuto fare un salto in avanti, trovare il modo di assicurare le risorse necessarie a stabilizzare quei nuovi equilibri. Questo passaggio in avanti non avvenne soprattutto perché il sistema politico italiano, a causa del quadro internazionale, impediva l’accesso al governo del principale partito di opposizione e la maturazione al suo interno della cultura necessaria per governare tale passaggio. Questo salto politico sarebbe stato ancora più necessario perché in quegli anni di profondo cambiamento dell’economia internazionale il sistema produttivo italiano stava iniziando ad accusare i colpi che ne avrebbero progressivamente ridimensionato il peso rispetto a quelli degli altri paesi europei. È proprio con il passaggio agli anni Ottanta, infatti, che inizia la progressiva scomparsa dalla scena internazionale dei grandi gruppi pubblici e privati italiani e si avvia quella metamorfosi che ha portato all’espansione di un tipo d’impresa esposta sul mercato internazionale, poco compatibile con gli alti salari e ostile al crescente prelievo fiscale.
Questa dinamica ha portato al configurarsi di due blocchi sociali contrapposti: quello ancorato intorno al lavoro dipendente e al sistema di garanzie degli anni Settanta e quello del lavoro indipendente insofferente nei riguardi di ogni vincolo. Il primo è il blocco della legalità e dei diritti, ad alto tasso d’istruzione e prevalentemente insediato in settori lontani dalla concorrenza internazionale, il secondo quello della piccola e media impresa, esposto al mercato e abituato, agitando questa ragione, ad assolversi da ogni aggiramento delle regole. Questi due blocchi si sono a lungo contrastati fino a diventare con la “Seconda repubblica” la base sociale degli schieramenti di centrosinistra e centrodestra, e tale contrapposizione, lungi dal risolvere i problemi, ha condotto al loro aggravamento.
Non da oggi il passaggio decisivo per rispondere alla crisi italiana è quello di riconnettere questi due blocchi costruendo una relazione virtuosa tra imprese e diritti. Un tale patto richiederebbe un reciproco riconoscimento: da un lato si dovrebbe accettare il valore fondante della legalità, sostituendo il sottosalario e l’evasione fiscale con un salto della qualità tecnologica dei prodotti; dall’altro riconoscere che la tutela dei diritti va ancorata alla reale redditività e richiede che l’intero paese non perda colpi, in una fase storica in cui sulla scena si affacciano interi continenti e più acuta diventa la concorrenza di chi si vale di costi di produzione più bassi.
Questo riconoscimento reciproco diventa ancora più necessario sotto i colpi della crisi. A questo passaggio difficile, che richiederebbe grande fiducia nella guida del paese, la politica italiana è arrivata sfiancata dal progressivo decadimento della sua autorità e del suo prestigio. È vero che l’indebolimento della politica è un processo internazionale che nasce dallo spostamento delle grandi decisioni nelle mani del capitale finanziario e lontano dagli stati nazionali, ma è anche vero che in Italia ha raggiunto punte drammatiche. Alle prove della competizione globale il paese è arrivato con una politica incapace di confrontarsi con le grandi sfide, intenta soprattutto alla rincorsa elettorale del blocco sociale di riferimento. La politica screditata e minore che noi conosciamo è questa, una politica che può anche gridare, ma in realtà piccola e priva di futuro. Occorre sbarazzarsi al più presto non della politica in generale, ma di questa politica, che spacca il paese ed accompagna la sua perifericizzazione.
È da questo deficit di una grande politica che è nato il governo dei tecnici, apparso come l’unico capace di varare, essendo al di sopra delle
parti e libero dalla rincorsa al consenso, quelle misure di interesse nazionale che la politica non era stata capace di prendere. In realtà si perpetuava, sia pure con una radicale discontinuità di stile, l’anomalia italiana: dall’essere l’unico paese europeo governato dal proprietario monopolistico della televisione commerciale all’essere l’unico che per rispondere alla crisi ha bisogno di rivolgersi ai tecnici.
Ma le vicende francesi dimostrano, molto più delle incertezze del governo Monti, che le dimensioni della crisi internazionale sorpassano di gran lunga le competenze dei tecnici e richiedono decisioni politiche. Gli interessi forti non sono per nulla patriottici e si sottraggono con disinvoltura alle pressioni di ogni governo, come dimostra l’emigrazione dei capitali francesi verso la Gran Bretagna dopo la vittoria di Hollande. La crisi non avrà soluzione se non quando la politica avrà riequilibrato, su una scala più larga di quella offerta dallo stato nazionale, il suo rapporto con l’economia. E tutto il tempo che si perde in questa transizione infinita ad una politica più forte è il tempo della crescita di tutte le disuguaglianze. Il liberismo è tutt’altro che una strategia moderata. Di fronte a fenomeni di questo tipo ci vuole ben altro che le risposte dei tecnici.
La legittimazione del governo tecnico si è quindi indebolita, e la palla sembra destinata a tornare presto nel campo della politica. Ma una politica debole e divisa come quella che ha ceduto il suo scettro di fronte all’emergenza che cosa può fare per invertire radicalmente la tendenza? La direzione che oggi molti indicano è quella che giustamente invita ad aprire la politica alla società, la strategia della partecipazione. La politica deve ricercare un radicamento forte, mettere fine al sospetto mortale di essere un corpo separato dedito soprattutto alla propria riproduzione, ridare spazio alla passione civile. Ma aprirsi non basta.
Una rinunzia forte ai propri privilegi da parte dei politici è necessaria anche per porre fine a quell’abitudine che spinge a fare di essi dei comodi capri espiatori: «Quelli che ci governano sono da noi facilmente scelti a far questa persona di rei de’ nostri mali» (Leopardi). Una forte discontinuità simbolica è l’unico modo per far sì che il paese smetta di nascondere dietro l’assalto ai politici la propria inerzia e inizi a guardare in faccia le sue responsabilità. Il deficit attuale della politica non è la patologia separata di una casta, ma l’effetto della miscela micidiale tra declino e divisione, del baratto della verità con la ricerca del consenso. Non si tratta di azzerare la politica di fronte alla demagogia, ma di farle capire che per riconquistare un ruolo dirigente essa dovrà cambiare tutte le sue abitudini. Non l’anti-politica, ma finalmente
il suo ritorno.

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