Una libertà  a portata di click

La settimana che precede lo sbarco a Wall Street di Facebook è costellata da indiscrezioni e rumors. Un libro del gruppo Ippolita aiuta invece a capire come funziona un’impresa simbolo di una concezione anarco-capitalista degli affari Omofilia, data mining sono i termini del lessico usato per un modo di produzione basato sulla espropriazione

La settimana che precede lo sbarco a Wall Street di Facebook è costellata da indiscrezioni e rumors. Un libro del gruppo Ippolita aiuta invece a capire come funziona un’impresa simbolo di una concezione anarco-capitalista degli affari Omofilia, data mining sono i termini del lessico usato per un modo di produzione basato sulla espropriazione La lunga e dorata marcia di Facebook verso la quotazione in borsa è stata finora sapientemente gestita da Mark Zuckerberg, che ha sempre presentato il social network come un’impresa innovativa che ha saputo interpretare il bisogno di socialità e di comunicazione nell’era del silicio. In un mondo sempre più interconnesso e piccolo, uomini e donne fanno esperienza di una solitudine che lascia attoniti e infelici, proprio quando la Rete dovrebbe consentire relazioni sociali che non conoscono i limiti dello spazio e del tempo. Ma più ci si avvicina alla realizzazione del villaggio globale, più la solitudine è esperienza quotidiana. Facebook, ripete il suo fondatore, fornisce ciò di cui la società ha bisogno: un habitat dove coltivare vecchie e nuove amicizie.
Con i suoi quasi novecento milioni di utenti, Facebook è riuscita a compiere un piccolo miracolo: ha reso amichevole la Rete. Inoltre, fornisce gratuitamente i suoi servizi. Basta connettersi, aprire il proprio profilo e cominciare a dialogare con gli amici, socializzando stati d’animo, esperienze, gusti musicali, idee politiche, incontrando sul web i propri simili, evitando così la spiacevole prospettiva di chattare con chi la pensa diversamente. L’Altro è bandito dalla propria pagina, ma se mai lo si volesse incontrare basterà chiedere amicizia a chi, nel suo profilo, ha definito un’identità diversa. L’innovazione, dicono alla Facebook, sta nell’aver fornito gratuitamente la possibilità di costruire griglie sociali laddove era impensabile costruirle, la Rete. Certo, la gratuità ha un prezzo, quello di fornire i propri dati, che saranno elaborati e impacchettati per essere venduti a imprese che li useranno per le loro strategie di vendita. Poi ci sono anche i discreti annunci pubblicitari che appaiono sulla destra della pagina, ma viviamo in una società aperta, dove la libertà di scelta è garantita a tutti.
La retorica sulla libertà assoluta è parte integrante di una impresa innovativa che ha un pubblico prevalentemente giovanile, anche se chiunque può collegarsi. Gli unici limiti posti sono l’uso di un linguaggio appropriato, rispettoso delle opinioni altrui, pure se poi non è difficile fare propaganda per la superiorità della razza ariana o, all’opposto, per la costruzione di una società di liberi e eguali. Sono però vietati insulti personali o minacce verso governi o personaggi pubblici.
Da molti a molti
Molta acqua è passata sotto i ponti da quando Mark Zuckerberg mise in piedi un social network destinato solo agli studenti di università prestigiose. Il giovane scontroso, irascibile, scaltro, opportunista e molto bravo ad assemblare codici informatici è diventato grande, ricco, ma non ha rinunciato a presentarsi come un «ribelle», ma tollerante verso chi la pensa diversamente. È ovviamente politicamente corretto, ma non rinuncia al suo punto di vista. La leggenda dice che Facebook doveva essere la chiave d’accesso di Zuckerberg nel mondo dorato dell’élite statunitense. Ma se i suoi primi compagni di viaggio, Dustin Moskovitz, Eduardo Severin e Chris Hughes, volevano solo entrare nei circoli e confraternite dell’Ivy League, cioè delle università statunitense più prestigiose, Zuckerberg, anche se era studente a Stanford, aveva ben altri progetti. In fondo, non ha mai nascosto il suo disprezzo verso un’élite chiusa nelle sue recintate e ben protette torri d’avorio. Per lui, il potere e la ricchezza erano a portata di mano senza dover fare nessun inchino o partecipando ai tristi riti dell’Ivy League. E con feroce determinazione ha fatto fuori tutti i suoi iniziali compagni di viaggio per restare solo al comando.
Il fenomeno Facebook non è però spiegabile attraverso la personalità di Mark Zuckerberg. È infatti un modello di business atipico rispetto agli standard statunitensi. I suoi profitti dipendono da quell’impalpabile, ma fondamentale elemento alla base di quell’animale sociale che è l’essere umano. Bisogno di comunicare la propria esperienza agli altri, senza rinunciare alla sua singolarità. Ci sono ovviamente dei precedenti nel capitalismo di imprese che hanno fatto della comunicazione oggetto di attività imprenditoriali. Ma i media – dai giornali alla televisione – hanno sempre visto una fonte primaria della comunicazione. Il modello era dall’«uno ai molti». La Rete consente invece una comunicazione dai «molti ai molti». Mancava però un habitat dove il singolo potesse esprimere le sue potenzialità, la sua capacità cioè di costruirsi una rete sociale. L’espressione social network evidenzia, d’altronde, proprio la capacità dei singoli di autorganizzare le proprie relazioni sociali. Questo il modello di business di Facebook, al punto che molti analisti e studiosi ne hanno messo in luce le potenzialità politiche vista l’opportunità di funzionare come un produttore just in time di opinione pubbliche, quindi dell’esprimere, in tempo reale, il loro punto di vista senza la mediazione, appunto, dei media.
Destrutturare è bello
È indubbio che il modello di business di Facebook abbia questi elementi alla sua base, ma ce ne sono molti altri da valutare. Per esempio, il cosiddetto data mining, cioè la raccolta, l’elaborazione e la vendita di dati contenuti nei profili degli utenti, nonché la vendita di spazi pubblicitari, così come fa Google. L’aspetto tuttavia più importante, che finora non è stato indagato, è la relazione esistente tra Facebook e quella corrente politico-culturale che negli Stati Uniti è chiamata anarco-capitalista. È a questa relazione che il gruppo Ippolita dedica un saggio intitolato Nell’acquario di Facebook, che può essere acquistato direttamente sul sito www.ippolita.net.
Ippolita è un eterogeneo gruppo di mediattivisti, ricercatori e informatici che da anni analizza i fenomeni emergenti nella Rete e li passa al tritatutto di una critica militante antiautoritaria. Un gruppo che si definisce con orgoglio anarchico o left libertarian. In passato Ippolita ha analizzato il fenomeno del software open source, ritenuto la risposta capitalista alla possibilità di produrre programmi informatici al di fuori delle regole della proprietà intellettuale (Open non è free, Eleuthera) . La stessa tensione «destrutturante» è dietro il volume Luci e ombre di Google (Feltrinelli), dove la società del motore di ricerca è rappresentata come il simbolo di un’impresa che, dietro la retorica della gratuità, ha costituito il primo esempio di data minig nell’era del web 2.0.
Questo saggio non nasconde l’ambizione di destrutturare la visione imprenditoriale non solo di Facebook, ma di tutte le imprese che costruiscono le loro fortune economiche su una concezione «libertaria» delle relazioni sociali. Un progetto di ricerca ammirevole per chi libertario si dichiara. Alla fine del saggio, l’obiettivo di mettere all’angolo il proprio fratello gemello – gli anarco-capitalisti, appunto – è raggiunto. È quindi un testo da leggere con attenzione, perché fornisce molti elementi che aiutano a illuminare il lato oscuro di Facebook e di quel web 2.0 indicato come un luogo di assoluta libertà, considerato invece da Ippolita come un fenomeno di delega tecnocratica della propria socialità.
Gli attivisti da poltrona
La ricognizione parte dalla «distrattenzione», cioè da quella distrazione strutturale che accompagna la vita in Rete. Troppi gli stimoli, troppe le informazioni a cui si ha accesso; da qui la distrazione, che come hanno già verificato i teorici dell’«economia dell’attenzione» pregiudica gli affari. Segue poi la necessità di produrre luoghi dove la distrazione venga gestita e superata attraverso la definizione di profili individuali che attirano attenzione da parte di chi si sente simile. E non è un caso che Facebook sia l’emblema di una «omofilia», cioè della centralità del singolo che entra in relazione con altri individui a colpi di click del mouse, mettendo sulla propria bacheca messaggi tanto insignificanti quanto espressione di una identità immutabile nel tempo e impermeabile a qualsiasi relazione sociale. I post non solo alimentano il chiacchiericcio, la fuffa e il rumore di fondo della Rete, ma sono indice di una pornografia emotiva e relazionale che sicuramente non è sinonimo di libertà. Siamo cioè di fronte a un «automarketing personalizzato di massa» che Facebook trasforma, attraverso la profiliazione, in dati da vendere sul mercato. Non spaventino i neologismi. Il testo di Ippolita è di una chiarezza cristallina. Come non essere d’accordo quando viene analizzato l’attivismo da poltrona, che si esaurisce nel cliccare su «mi piace» di una pagina che invita alla mobilitazione per una causa ovviamente giusta. L’opinione pubblica viene prodotta dentro un dispositivo tecnocratico dove tutti sono spettatori passivi di spettacoli autorizzati dalla policy di Facebook.
L’analisi della «filosofia» anarco-capitalista sottolinea la capacità di una visione antistatalista e a favore del libero mercato di diventare egemone in un contesto, quello high-tech, influenzato dalla controcultura degli anni Sessanta. L’anarco-capitalismo ha una genealogia negli anni Trenta, quando un gruppo di economisti cominciò a sviluppare una teoria incentrata sulla figura dell’individuo proprietario e che ha avuto il suo massimo splendore nel Nobel per l’economia Milton Friedman. Lo stato era il nemico da combattere in nome della libertà individuale. Ogni attività umana doveva essere sottoposta alle leggi della domanda e dell’offerta. Il matrimonio, l’amicizia, il lavoro, la formazione, l’educazione erano beni che potevano essere acquistati o scambiati al mercato. La controrivoluzione reaganiana aveva posto le basi affinché quella distopia poteva diventare realtà, ma la Rete è un mondo dove i contenuti non devono essere pagati. Ma è proprio in questo contesto che avviene la fusione tra alcuni temi del mouvement degli anni Sessanta e il credo liberista. Le teorie «libertariane» aggirano così il problema della gratuità e puntano tutto su una trasparenza radicale dove tutto deve essere reso pubblico. Quelle informazioni possono però diventare merce da vendere, lasciando che i contenuti continuino ad essere gratuiti. Anche la proprietà intellettuale non è molta amata. Gli anarco-capitalisti sottolineano allora come la condivisione, il potere della folla possono creare un mondo nuovo, dove l’attitudine individualista può atteggiarsi a paladina di una libertà che ha nel mercato il suo massimo custode.
Liberi perché eguali
Il gruppo di Ippolita ricorda che uno dei primi investitori su Facebook è Peter Thiel, un personaggio inquietante che ha fondato PayPal, chiamata mafia PayPal, un libertariano che chiede l’abolizione della moneta, dello stato, che crede nella competizione come regola aurea delle relazioni sociali. Ma di anarco-capitalisti ce ne sono molti a Silicon Valley. Tutti affermano di aver fatto propria l’attitudine hacker e la conseguente ostilità per i segreti – di stato, delle imprese; e tanti vedono nello Stato il nemico pubblico da combattere per porre le basi di una libertà assoluta. Libertariano è anche Julian Assange, che combatte il segreto di stato in nome di una trasparenza radicale, cioè uno dei fattori base di imprese come Facebook.
Nell’acquario di Facebook non risparmia, a ragione, nessuno degli idoli della Rete. La sua non è però furia iconoclasta, né un rifiuto o adesione a un luddismo antitecnologico. Più semplicemente, Ippolita ritiene che la tecnologia vada conosciuta per usarla nella costruzione di una società di liberi e eguali che faccia a meno, però, dello Stato.
C’è però un aspetto mancante nella critica all’anarco-capitalismo. Si tratta della necessaria critica all’economia politica del capitalismo on-line, cioè di un rapporto sociale di produzione che mette al lavoro alcune caratteristiche della natura umana, a partire da qualle socialità e capacità di comunicare che sono i fondamenti di imprese come Amazon, Google, Apple, Facebook e tante altre ancora. Il problema è allora come contrastare questa accumulazione per espropriazione di sapere, conoscenza, socialità. espropriazione che avviene durante il lavoro, ma anche quando si chatta con amici e amiche. Il lavoro e la vita sono momenti distinti, anche se i confini sono sempre più labili. E va dunque salvaguardata la privacy, come anche il diritto all’anonimato per non rimanere catturati dalla retorica della trasparenza. Allo stesso tempo come non immaginare una realtà dove non c’è vendita di forza-lavoro, perché anche si entra negli atelier della produzione c’è espropriazione della propria socialità. Senza ripercorrere vecchie dicotomie, la centralità di un conflitto contro i rapporti sociali dominanti di produzione rafforza infatti l’affermazione di una libertà che non coincide con il mercato, ma nella costruzione di una realtà dove uomini e donne cooperano per vivere senza padroni. In fondo, l’animale umano è un individuo sociale. La posta in gioco è dunque il come vivere insieme senza che nessuno sia padrone della vita dell’altro.

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