Era animato dalla febbre di percorrere il mondo per ritrovare se stesso
Era animato dalla febbre di percorrere il mondo per ritrovare se stesso I Mi attira in Tiziano Terzani il fuoco emotivo che brucia la sua pagina. Giornalista, scrittore, saggista, inviato, filosofo, asceta, poeta… Ogni definizione sembra inadeguata, incongrua. Tutte gli stanno strette. Lui si mette sempre in sintonia con la Storia: non tanto quella dei bollettini di guerra, delle dichiarazioni governative, dei proclami ufficiali, che pure non evita di scrutinare, quanto piuttosto il punto di vista filtrato dalle chiacchiere che passano di bocca in bocca e circolano per le strade fino a diventare, magari attraverso il racconto di un taxista, la verità che Giovanni Verga, nella lettera al suo amico Salvatore Farina compresa nella prefazione all’Amante di Gramigna, diceva di aver trovato «nei viottoli dei campi».
Questo singolare incrocio di alto e basso, analisi teorica e testimonianza diretta, è già chiaro nei primi articoli sull’apartheid sudafricano pubblicati sull’«Astrolabio» di Ferruccio Parri, al tempo in cui il giovane reporter lavorava ancora all’Olivetti, ma poi soprattutto nei servizi sul Vietnam, in seguito riuniti in Pelle di leopardo: basta paragonarli agli articoli che Goffredo Parise inviava all’«Espresso», leggibili in Guerre politiche, per rendersi conto della differenza.
Mentre lo scrittore vicentino appunta il suo sguardo sul generale americano con lo scintillante bicchiere di whisky e ricava da un semplice dettaglio il massimo del significato, Terzani scrive seguendo un modello già predisposto. Pur essendo elastico, pronto al mutamento, se cambia prospettiva, non rinuncia ad applicare uno schema concettuale. È attratto in modo irresistibile verso il presente, di cui vorrebbe poter declinare, se non una legge, almeno un senso. Ma ciò gli risulterà impossibile. E sarà, io credo, la sua fortuna.
Se avesse trovato le risposte che cercava, Terzani sarebbe forse guarito dalla febbre che lo animava, ma noi oggi non parleremmo più della sua opera. Siamo di fronte a un vitalista, capace di consumare la sua ansia partecipativa senza scorciatoie visionarie. Saldamente ancorato alla tradizione toscana, lo stile di Terzani corrisponde alla volontà di stare ai patti. Ma poi l’adesione all’evento risulta talmente intensa (studiare, imparare le lingue, abitare nei luoghi di cui si racconta, fare amicizie, coinvolgere la moglie e i figli), da lasciare emergere un elemento autobiografico che negli anni assumerà sempre maggiore importanza. È l’immedesimazione totale nella natura di ciò che abbiamo scelto, una condizione spirituale che Clifford Geertz, in Opere e vite, definì, con espressione indimenticabile, «qualcosa che nereggia, il se stessi».
Tiziano Terzani era destinato a essere l’uomo della disillusione: innanzitutto politica, come avanguardia storica di quella esistenziale. E tuttavia in lui non troviamo nessuna amarezza. C’è semmai la voglia di ricominciare da capo. In Giai Phong! è il Vietnam la fonte del suo primo abbaglio. Ne La porta proibita sarà la Cina. In Buonanotte, signor Lenin! l’Unione Sovietica.
In quest’ultimo diario, un uomo nuovo bussa alla porta del vecchio. Alle foci dell’Amur, a Nikolajevsk, l’inviato speciale diventa esploratore: laggiù, di fronte all’isola di Sachalin, dove Anton Cechov registrò la condizione ferina dell’essere umano, anticipando l’abominio novecentesco, Terzani vede solo una sporca riva di scatolette arrugginite; ma l’evidenza del riscontro, invece di scaricare la sua energia, l’accresce, come se il cadavere del socialismo (siamo all’indomani della caduta di Gorbaciov), fosse poca cosa rispetto al senso di vanità che si respira su quella estrema sponda, coi fantasmi dei gesuiti che, primi occidentali, vi misero piede, inviati dall’imperatore di Pechino, Kang Xi.
È la via dell’antico pellegrino, in singolare risonanza con Colin Tubron, altro grande testimone della fine dell’impero sovietico, quella che Terzani prefigura ormai dentro la propria anima. Da quel momento le sue notazioni acquistano ulteriore potenza: nello sperduto aeroporto di Cita, in Siberia, i cani randagi che dormono accovacciati sotto le ali dei jet, vecchi Antonov lasciati a marcire nell’incuria di fine millennio, dicono più di tante dotte analisi sul fallimento del comunismo.
Un indovino mi disse assomiglia a uno zibaldone dove tuttavia lo scrupolo documentario resta dominante, senza però risultare esclusivo. Sembra quasi che la riflessione, da sola, non sia sufficiente e debba essere certificata dalla presenza dell’autore sul luogo delle operazioni.
Arriva così la prova cruciale: il reporter s’innamora del suo strumento conoscitivo (tecniche d’analisi, idea stessa del falso e del vero), al punto di orientarlo verso il proprio mondo interiore. Dall’Himalaya, una delle Lettere contro la guerra, scrive una dichiarazione di poetica: «Mi piace essere in un corpo che ormai invecchia. Posso guardare le montagne senza il desiderio di scalarle. Quand’ero giovane le avrei volute conquistare. Ora posso lasciarmi conquistare da loro».
È la prefigurazione dell’ultimo libro, Un altro giro di giostra, uscito nel 2004, pochi mesi prima della sua morte. Non lo possiamo considerare un semplice diario della malattia. Tutti i viaggi tornano, ancora una volta, in una cadenza nuova, trasfigurati alla maniera di cicatrici interiori. L’esploratore, chino a terra, considera da New York, una città di pazzi dove solo i barboni si godono il sole, i vecchi arnesi di lavoro: India, Thailandia, Hong Kong, Filippine, ancora Himalaya, infine Orsigna. Sulla terrazza del Gange View Hotel, a Benares, osservando l’eterno scorrere del fiume più sacro del mondo, capisce infine la ragione profonda che, sin da ragazzo, lo aveva spinto a staccarsi da Monticelli, a Firenze, dove suo padre faceva il meccanico: «Ero vuoto. Vuoto come è vuota una spugna, pronta però a riempirsi di quello in cui è tuffata. La metti nell’acqua e d’acqua s’imbeve, la inzuppi nell’aceto e diventa acida. Non avessi viaggiato non avrei mai avuto niente da dire, da raccontare; niente su cui riflettere».
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