Sessant’anni di attesa per il giorno della gloria

E così venne il giorno della gloria, e di come la gloria si trasformò in tristezza, in quella chiesa buia, mentre il vescovo si apprestava a celebrare la solenne funzione e il coro cantava una musica incomprensibile, una tristezza inspiegabile che mi costrinse a uscire fuori, a cercare la luce. Non mancava la luce sul sagrato, sulla piazza di Corleone il sole batteva forte, come sempre feriva gli occhi incauti nella sfida, e i ciottoli, sia pur lavati, ferivano lo stesso i piedi nudi del fraticello francescano che voleva entrare in chiesa col suo misero saio e una borsa di plastica con dentro pezzi di pane e qualche mela.

E così venne il giorno della gloria, e di come la gloria si trasformò in tristezza, in quella chiesa buia, mentre il vescovo si apprestava a celebrare la solenne funzione e il coro cantava una musica incomprensibile, una tristezza inspiegabile che mi costrinse a uscire fuori, a cercare la luce. Non mancava la luce sul sagrato, sulla piazza di Corleone il sole batteva forte, come sempre feriva gli occhi incauti nella sfida, e i ciottoli, sia pur lavati, ferivano lo stesso i piedi nudi del fraticello francescano che voleva entrare in chiesa col suo misero saio e una borsa di plastica con dentro pezzi di pane e qualche mela.

Il poliziotto di guardia, ligio al suo dovere, cercava di convincerlo a lasciare fuori la borsa e il fraticello non capiva: «C’è solo un pezzo di pane e due mele», gli diceva, «e la chiesa è di tutti» . Ma il poliziotto irremovibile, pretendeva che lasciasse fuori il suo pane. Non lo so com’è finita, perché mi sono perso nei pensieri, tra la folla e le bandiere; ce n’era una rossa con la falce e il martello sopravvissuta a qualche sezione del Pci che mi seguiva, perché il compagno che la portava mi aveva riconosciuto e mi chiedeva delle cose. Ma non avevo voglia di parlare, nella testa un ronzio, e tutto era lontano. Il giorno della gloria per Placido così era arrivato. Pensavo ai suoi anni. Era del 1914, e quando l’hanno ammazzato di anni ne aveva 34. Uno più di Cristo. «Un pezzo di pane e due ulive per companatico, e la terra che è di tutti non si può lasciarla incolta». Io immagino che così diceva Placido ai suoi compagni per convincerli a seguirlo nelle lotte. Io immagino che le sue vesti dovevano essere simili a quelle del fraticello francescano, misere, rattoppate, i resti di quelle da soldato, panno pesante che gli deve aver riscaldato le ossa sui monti della Carnia in qualche caverna rifugio dei Partigiani, panni pesanti e un fucile, e scarse munizioni da razionare come il cibo che doveva bastare fino alla fine. «La terra è bassa e si zappa con sudore» e nei momenti in cui si prende fiato i pensieri corrono a quella fine. Alla vittoria. E poi la vita riprende a scorrere, e si ricomincia da capo, perché la libertà è la cosa più importante, ma anche il pane è importante, e quando arriva la sera e non ne hai da dare ai tuoi figli, la notte diventa ancora più buia, e più amari sono i sogni, e i rumori sono come presagi e non vedi via d’uscita. Allora pensi a tutta quella terra grassa, ai padroni che non ne conoscono neanche i confini, ai mafiosi che sorridono sprezzanti, ai signori che il pane lo buttano ai cani per sovrabbondanza. «Ma io sono un uomo o cosa?» doveva pensare Placido, in quelle notti fatti di incubi e di sogni. «Ma io sono un uomo che posso chiedere l’elemosina? Ma noi siamo uomini che dobbiamo chiedere l’elemosina?», urlava Placido in quella stessa piazza di Corleone gremita di contadini, di falegnami, di muratori, di calzolai, di sterratori, di braccianti che lavoravano a giornata. Placido l’aveva imparato dai Partigiani cosa vuol dire essere «un uomo». E poi, in quella chiesa, non c’era il Cristo, «il figlio dell’uomo»? e anche lui gridava nelle piazze, seminava nel vento del deserto… Mi faccio forza. Riapro gli occhi alle ferite del sole, immoto, eterno, indifferente. E nel riverbero vedo avanzare una vecchietta malferma sulle gambe, sorretta per le braccia da un giovane biondo, rosso in faccia per la fatica e l’emozione. Viene immediatamente circondata da giornalisti e telecamere. Poi, i giornalisti s’allontanano e corrono verso un altro punto. La cerimonia è finita, e stanno uscendo le autorità. La vecchietta riprende il suo incedere. La riconosco. E’ la sorella di Placido. Le vado incontro, l’abbraccio. Lei mi tocca la faccia con le sue dolci mani innocenti. Mi costringe a guardarla negli occhi. Occhi chiari, ancora grandi che splendono in quella pelle chiara e immune al tempo. Occhi belli, fieri, che brillano d’orgoglio e di tristezza. «Hai visto?» mi dice, «hai visto che per fare il funerale a Placido è venuto pure il Presidente? Ne è valsa la pena aspettare sessant’anni. Chissà com’è felice ora Placido lassù». «Si, chissà com’è felice ora Placido lassù» le rispondo, e vorrei che quegli occhi non mi lasciassero mai più. E vorrei poter provare anch’io quell’orgoglio e quella tristezza. Ma la vita riprende a scorrere. Scorre fino al cimitero.

È il secondo funerale che mi capita di seguire quest’anno. L’altro, quello di Vincenzo Consolo, era al tramonto, e il cielo era grigio di nebbia e la luce era scarsa. Questo, invece, è nella pienezza del giorno e il sole brilla in tutta la sua maestosa potenza. Nello spiazzale di fronte al cimitero, tra gli autobus in sosta e le bandiere, don Luigi Ciotti sta finendo di parlare. Quando scende dal palco, mi abbraccia e mi dice «che piacere trovarti qua». «Luigi – gli dico – questa è la mia terra». Mi rimane un’ultima cosa da fare, prima di andar via. Ero venuto fino a Corleone per dare l’ultimo saluto a un amico, un amico con il quale ho condiviso pensieri e lunghe passeggiate, notti insonni e tanto, tanto lavoro e sofferenza. Ero venuto per dargli l’ultimo saluto. Mi avvicino alla macchina mortuaria, poso la mano su quell’urna di marmo che racchiude le sue povere ossa, la bacio, «che tu possa riposare in pace amico mio» mi viene da sussurrare, «finalmente è arrivato per te il giorno della gloria». E per tutta risposta mi viene in mente, limpida nella sua visione, l’immagine dell’umile frate francescano a piedi scalzi, con in mano la sua borsa di plastica con dentro qualche mela e dei pezzi di pane, e la sua voce gentile che dice al poliziotto: «Mi lasci entrare, la vita è di tutti».

* regista, autore del film «Placido Rizzotto »

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