IL MUGUGNO CI SEPPELLIRà€
A lu tiempo de disperazione
Masaniello se veste ‘a lione
Nu lione cull’ogne e cu ‘e riente
Tene a famma ‘e tutte ‘e pezziente..
IL MUGUGNO CI SEPPELLIRà€
A lu tiempo de disperazione
Masaniello se veste ‘a lione
Nu lione cull’ogne e cu ‘e riente
Tene a famma ‘e tutte ‘e pezziente..
È una strofa dell’anonimo «O cunto ‘e Masaniello», composto qualche tempo dopo la temibile quanto effimera sollevazione napoletana del luglio 1647.
Tanto per non dimenticarlo, contro l’aumento delle tasse sui generi di prima necessità. Motivo di insurrezioni innumerevoli nel corso di tutta la storia umana con l’inspiegabile eccezione degli ultimi decenni nel corso dei quali l’argomento è passato dalla parte dei padroni.
La strofa torna vivida alla mente nel leggere in un sondaggio eseguito per conto delle Acli (l’associazione dei lavoratori cattolici italiani) secondo il quale ben il 32% degli interpellati ritiene che il nostro paese possa essere trasformato solo attraverso una rivoluzione, contro il 50,9% invece che confida nelle riforme, quelle convincenti ma anche quelle dolorose. E il resto (17,2%) è rappresentato da irrimediabili pessimisti, convinti che non ci sia più nulla da fare, che «l’Italia non cambierà mai». I sondaggi, si sa, sono quello che sono, e il gusto di parlare a vanvera e spararle grosse è da sempre uno sport nazionale, tanto più quando si presenta l’occasione di una intervista. Va a sapere poi cosa intendano davvero le persone interpellate per «rivoluzione» (quanto alle riforme sono diventate ormai una parola inquietante laddove non è mai chiaro se si tratti di migliorie o, come più spesso accade, di solenni bastonature). Grillo si considera senz’altro un rivoluzionario, per non parlare della Lega, del Front national di Le Pen, dei «rottamatori» e degli arrivisti di ogni risma. Ognuno, insomma, coltiva il suo personale, risentito massimalismo.
C’è dunque da dubitare che questo terzo degli italiani intenda per «rivoluzione» ciò che il termine classicamente designava e cioè un progetto razionale di società da conseguire rovesciando senza tanti complimenti l’ordine costituito. E in fondo non gliene si può nemmeno fare un torto. Nondimeno, se il 74% degli stessi intervistati risponde che toccherebbe ai più ricchi pagare i costi della crisi, tenendo conto del fatto che questi ultimi non hanno alcuna intenzione di prestarsi se non vi saranno costretti, allora ecco che almeno quel senso dell’ingiustizia subita e della rabbia popolare che mosse Tommaso Aniello da Amalfi e i suoi pezzenti contro le gabelle del viceré potrebbe sottendere e permeare gli impeti rivoluzionari di quel 32% di italiani scovati dalle Acli.
La rivolta di Masaniello ebbe durata brevissima, ma il suo mito ne ispirò molte altre che spesso indussero i governi alla prudenza nel taglieggiare i propri sudditi. Un potere al riparo da ogni minaccia finisce sempre coll’assumere tratti assoluti, come continuiamo a sperimentare. A dire il vero di leoni colle unghie e coi denti oggi non è dato scorgerne affatto. E così la rivoluzione, che non era un pranzo di gala, potrebbe essere diventata un sordo mugugno, o una conversazione da osteria. Eppure non sarebbe male se nelle fredde menti dei tecnici al governo (i viceré del capitale finanziario) questo dato stravagante potesse insinuare almeno qualche piccolo dubbio.
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