SINDACATO · Centinaia di delegati in assemblea Serve «un’altra unità » che rompe le barriere
SINDACATO · Centinaia di delegati in assemblea Serve «un’altra unità » che rompe le barriere
Quale sindacato, da qui in poi? Le sofferenze della Cgil – inchiodata al tentativo di recupero dell’«unità sindacale» con Cisl e Uil – sembra aumentare col prolungarsi dell’immobilismo di fronte a una «controriforma» del mercato del lavoro che da martedì sarà in votazione al Senato. A meno che alla Fiom non riesca uno di quei colpi di genio di cui, fin qui, si è dimostrata spesso capace. Ma se si deve guardare al futuro disegnato dal combinato disposto pensioni-mercato del lavoro-ammortizzatori sociali, il bisogno di ridisegnare ruolo e funzioni del sindacato esce allo scoperto come problema non più rinviabile. L’assemblea nazionale di ieri mattina a Roma, all’Ambra Jovinelli, ne è stata a suo modo una prima dimostrazione. Centinaia di delegati di quasi tutte le categorie, ma non una banale – e sempre frustrata – «autoconvocazione». Qui c’erano pezzi importanti della Cgil (Rete28Aprile, soprattutto) e dei sindacati di base (Usb, Snater, Unicobas, ecc). Perché la presenza o meno di «organizzazioni strutturate» fa sempre la differenza, in materia di lotta sindacale. Un «moto dal basso» che viene accompagnato anche dall’«alto», da gruppi dirigenti ormai consapevoli della necessità di «rompere le barriere» tra organizzazioni e visioni contrastanti, da consegnare al passato («la concertazione è finita anche per chi se n’era avvantaggiato»). E che accomuna tute blu e pubblico impiego, ferrovieri e Alitalia, insegnanti e senza casa. Il dirigente più noto in sala è il sempre bastian contrario Giorgio Cremaschi, una vita della Fiom Cgil. «Bisogna anche cambiare linguaggio – spiega – L’unità sindacale di cui si parla è quella tra Cgil, Cisl e Uil, che da molti anni ha portato soltanto disastri per chi lavora. Non si tratta, ricorda a chi l’ha criticato – specie in Cgil – di «andare in un’altra organizzazione», ma di «trovare un’altra unità, quella fondata sul sindacalismo antagonista e la partecipazione dei delegati». Altrimenti questi ultimi – come accade sempre più spesso – vengono «ridotti a fiduciari delle diverse organizzazioni»; o, come nella Fiat di Marchionne, addirittura «fiduciari dell’azienda» (gli iscritti a Fismic e Assoquadri). Il «linguaggio» sembra una preoccupazione da intellettuali, ma in un mondo dove le parole significano quasi sempre l’opposto (basti pensare a «riforme», per dirne una) il problema esiste. E non è strano che sia un giurista del lavoro, come Carlo Guglielmi, a insistere sulla parresia , parola del greco antico che non significa solo «libertà di parola» ma anche, contemporaneamente, «dovere di dire la verità». Da lui viene l’invito a fare «come se» il «nuovo sindacato esistesse già, in questa sala». L’esempio è il Michael Collins che invita gli irlandesi a fare «come se» gli inglesi non ci fossero, iniziando a vivere secondo le proprie regole condivise. Un sogno? Non più di quello che spinse il sindacato italiano – ancora in piena guerra e fino al ’47 – di ottenere il «blocco dei licenziamenti, la cassa integrazione, la scala mobile e la parità salariale nord-sud». Ma è dalle situazioni – industriali o meno – che arriva la carica a muoversi. Non perché sia facile («la gente ha paura, attende di vedere e capire meglio», si ripete in quasi ogni intervento). Un delegato Fiom di Fincantieri, da Ancona, spiega come hanno fatto ad evitare che 180 «dipendenti diretti» (quasi tutti disabili per motivi di lavoro o «rompicoglioni» del sindacato) venissero messi fuori e sostituiti con «disperati dei subappalti, precari, a volte senza permesso di soggiorno». Il mondo del lavoro – dentro questi racconti dal vivo – «vive in una guerra». Commerciale, certo, basata sulla «competitività»; ma dagli effetti altrettanto esiziali sulle persone. «È ora di dire basta all’era dei suicidi, è ora di dire basta e ribellarsi». Ma non c’è alcun estremismo, in queste parole. È prima di tutto un rifiuto a essere considerati «carne morta», soggetti passivi, merce liquida a disposizione. Lo spiega con molta calma dante De Angelis, macchinista due volte licenziato da Fs e sempre riassunto «perché c’era l’art. 18». Il bisogno impellente è «riportare le persone, chi produce, a governare l’orientamento del paese». Era il «patto sociale inscritto nella Costituzione», che riconosce al lavoro interessi diversi da quelli dell’impresa e il diritto a organizzarsi per farli valere. Al contrario, come altri vedono, c’è «un golpe strisciante che, mettendo in Costituizione il pareggio di bilancio, pone al posto di comando i princìpi del libero mercato, nemmeno contenuti prima nella Carta». L’elenco delle ragioni è molto lungo, ma «il tempo per provare a resistere è ora». Paolo Leonardi, coordinatore Usb, propone in conclusione sia una piattaforma di lotta «comune a delegati di sindacati differenti», sia una prima scadenza. Immediata, di fatto. «Per difendere l’art. 18 nel suo valore di fondo e nella sua essenza simbolica, invitiamo tutte le Rsu, le Rsa, le organizzazioni e le aree sindacali che condividono queste esigenze a organizzare nelle prossime giornate dell’8 e 9 giugno momenti di lotta: fermate, sciopero, azioni di protesta, presìdi». Non è la proclamazione solo cartace di uno «sciopero generale» che si sa impraticabile, con questi livelli di rappresentatività e organizzazione. Ma è un primo passo. Gli obiettivi (dal blocco dei licenziamenti a ripristino della pensione di vecchiaia a 60, dal blocco delle privatizzazioni al diritto a casa, reddito, servizi, ecc) «se sembrano incompatibili con il pagamento del debito» – e di certo lo sono – «diciamo: è il debito che non va pagato». Sta nascendo qualcosa di nuovo. Ne sentiremo parlare ancora.
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