Nuove Br, lascia l’avvocato «Rinuncio per paura»

Il legale d’ufficio: mi sento intimidita dal leader del gruppo

Il legale d’ufficio: mi sento intimidita dal leader del gruppo MILANO — «Ritengo che la mia incolumità psicofisica di difensore d’ufficio del signor Alfredo Davanzo, unitamente alla sua volontà di non avvalersi delle mie prestazioni professionali, siano valori di interesse superiore rispetto all’obbligatorietà della difesa d’ufficio». Ko tecnico alla prima ripresa: nel processo-bis d’Appello a 11 imputati delle «nuove Brigate Rosse-Pcpm», condannati in primo grado nel 2010 a 150 anni, la giovane avvocato d’ufficio getta la spugna. Per paura.

Trent’anni, da tre iscritta alle liste dei difensori d’ufficio, studio nell’hinterland milanese, il 15 maggio G. D. era stata sorteggiata dalla Corte d’Assise per proseguire le udienze e assicurare una difesa tecnica anche all’imputato (l’ideologo Alfredo Davanzo, 11 anni e 4 mesi in primo grado) che con un proclama aveva appena rinunciato al proprio difensore storico di fiducia pur di non aver alcun «rapporto con lo Stato borghese»: ma ora la legale d’ufficio rinuncia all’incarico, e oggi non sarà presente nell’aula dove è prevista la requisitoria del sostituto pg Laura Barbaini.
Il processo è il nuovo Appello che la Cassazione ha ordinato alla Corte d’Assise di rifare a 11 imputati d’aver promosso o partecipato a «una banda armata con finalità di terrorismo»: il «Partito comunista politico militare» azzerato il 12 febbraio 2007 quando secondo l’inchiesta del pm Ilda Boccassini aveva già incendiato la sede milanese di «Forza Italia» (2003) e padovana di «Forza Nuova» (2006), e stava progettando il ferimento del manager della «Breda», Vito Schirone, l’agguato al giuslavorista e senatore pd Pietro Ichino, e l’attentato alla sede del quotidiano «Libero».
La Cassazione il 23 febbraio ha sposato l’accertamento milanese dei fatti e le responsabilità personali, ma rimproverato ai giudici di non aver ben motivato se i br intendessero esercitare una violenza di tipo «comune» su bersagli mirati con finalità eversive di propaganda, o una violenza «terroristica» che accettava il rischio di vittime collaterali o addirittura voleva colpire indiscriminatamente la popolazione per suscitare panico e destabilizzare gli assetti istituzionali.
Una settimana fa l’Appello-bis comincia con un documento dei detenuti da 5 anni Davanzo e Vincenzo Sisi: rivendicando «la lotta armata» come metodo, e pur tra le righe di una polemica con alcuni dei compagni «anche in seguito alle evoluzioni che si sono date con la rottura del nucleo militante», revocano il loro avvocato di fiducia Giuseppe Pelazza per «affermare con ancor più chiarezza il rapporto con la giustizia borghese e le sue diatribe: non abbiamo nulla da cui difenderci né da giustificare». La Corte allora nomina due legali d’ufficio, concedendo il termine di legge (una settimana) per studiare le carte. Gli imputati dalle gabbie gridano di non volerli accettare, la Corte spiega che gli imputati non hanno facoltà di rinunciarvi, e allora Davanzo mormora: «In ogni caso ci saranno complicazioni». È possibile che questa frase sia stata percepita come una latente minaccia da una dei due legali d’ufficio, la giovane toga che rimarca d’aver «sempre portato a termine con dedizione ogni incarico d’ufficio conferitomi»; ma che non si sente ora di fare altrettanto con questo, perché l’imputato br «espressamente ha dichiarato di non accettare la rappresentanza da parte di alcun difensore, esternando intimidazioni nei confronti di chi avesse assunto l’incarico». Perciò «non mi trovo nelle condizioni di sufficiente calma e tranquillità per portare a termine l’incarico in ragione delle attuali condizioni sociopolitiche e delle pregresse vicende di terrorismo nel nostro Paese». Rinuncia al mandato, e oggi dovrà essere sostituita con un altro avvocato d’ufficio dalla Corte, che dovrà concedere ancora termini a difesa sino al 28 maggio. Il 14 giugno, se non ci sarà sentenza, scadranno per la fase d’Appello i termini di custodia cautelare.

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