Le brutali confessioni di un giovane russo

Edito da Elliot «Esodo», firmato Dj Stalingrad

Scritto in prima persona, il romanzo ha i tratti di uno sproloquio disperato, un flusso di coscienza nel quale si delinea un mondo degradato e violento, tra risse, droga, meeting politici e scontri con la polizia

Edito da Elliot «Esodo», firmato Dj Stalingrad

Scritto in prima persona, il romanzo ha i tratti di uno sproloquio disperato, un flusso di coscienza nel quale si delinea un mondo degradato e violento, tra risse, droga, meeting politici e scontri con la polizia
«Lui mi vuole spaventare, ma io non ho paura», così avrebbe detto Lev Tolstoj di Leonid Andreev, secondo quanto scrive A. S. Suvorin nel suo Diario. Oggi sicuramente i testi di Leonid Andreev non spaventano più nessuno, eppure all’epoca alcuni suoi racconti avevano provocato aspre polemiche sulla stampa coeva. Oggi, nell’odierna letteratura russa, molti autori vogliono spaventare il lettore presentandogli una realtà cruda, violenta, priva di qualsiasi atteggiamento di pietosa partecipazione.
Di particolare brutalità è apparso subito ai lettori della rivista «Znamja» il racconto lungo Esodo, scritto da un non meglio precisato Dj Stalingrad e inserito non nella sezione della narrativa, ma in quella chiamata “Discussione” e presentato come una sorta di documento sull’estremismo. Successivamente Esodo è uscito in volume e adesso appare nella traduzione italiana di Enzo Striano presso la casa editrice romana Elliot (pp. 110, euro 12). Il testo, dicevo, ha spaventato molti, anche perché, come ha notato Michail Butov sulle pagine del «Novyj mir», Esodo «è stato letto come una semplice apologia della violenza».
L’opera, scritta in prima persona, ha i tratti di una confessione-sproloquio di un giovane redskin, un flusso di coscienza lirico e urlato, nel quale si delinea un mondo violento e degradato, tra risse e droga, scontri con la polizia e meeting politici, quello della gioventù emarginata russa dell’epoca post-sovietica e del capitalismo selvaggio, che l’autore riproduce con vivide colorazioni pulp. L’eroe ha i tratti specifici di un’intera generazione di emarginati, quella cresciuta negli anni novanta: «con un maglione slabbrato, scarpe da ginnastica sporche, la testa imprecisamente rapata a zero, baffi da adolescente, la faccia piena di brufoli, i denti guasti …».
Già nella breve presentazione il primo redattore di «Znamja» Sergej Cuprinin aveva notato: «L’autore chiede di non diffondere notizie sul suo vero nome e il suo domicilio. Considerata la specificità di diffusione del testo nell’ambito della subcultura giovanile, il racconto è pubblicato conservando lo specifico lessico dell’autore». E infatti il testo, che deve essere stato senza dubbio per il traduttore un vero rompicapo, si presenta come un sproloquio intriso di gerghismi, intonazioni colloquiali, lessico espressivo, che trascina il lettore in un turbinio di vicende segnate da violenza inaudita descritta nei particolari con una sorta di neofisiologismo baroccheggiante.
«Il romanzo shock della nuova Russia», sottolinea in copertina l’editore italiano, e in effetti il lettore è trascinato in un vortice di perversa e disperata violenza che assomiglia ora a un referto di una perizia di medicina legale, ora alla relazione di un sociologo in prima linea, ora al rapporto di un infiltrato in un’organizzazione estremistica. Di fronte a noi si schiude un abisso senza fondo e senza il barlume lontano di un’uscita dal tunnel dell’efferatezza, una sorta di impietosa autopsia sociale. Certo si potrebbero citare molti altri esempi analoghi nella letteratura russa moderna e contemporanea, penso a Venedikt Erofeev, a Eduard Limonov, ad alcuni capitoli di San’kja di Zachar Prilepin, per non parlare dei tanti testi dedicati alla Cecenia e, ovviamente, è evidente il rimando a autori cult delle letterature occidentali, da Celine a Miller, Burroughs e Burgess.
Ma questo testo ha qualcosa di diverso. È un’opera che sembra non curarsi affatto della «letterarietà» e, allo stesso tempo, non è una semplice cronaca, un semplice documento. Già il suo carattere di testo cult trasmesso informalmente in determinati ambienti dell’emarginazione giovanile, lo rende diverso dalla semplice letteratura descrittiva tradizionale dei bassifondi. Malgrado la bravura e l’amore per il rischio manifestati dal traduttore, è proprio il testo russo originale che ci può spiegare la specificità dell’opera. Essa si costruisce su di una forma di comunicazione espressiva che non può fare a meno dell’esecuzione orale del testo, della sua lettura ad alta voce e con ampia partecipazione di mimica e gestualità, di turpiloquio e sfrontatezza.
È un racconto per iniziati, una sorta di epos, o meglio antiepos generazionale, tanto è vero che l’identità stessa del suo autore è un dettaglio in definitiva secondario. Di lui si sa che è ricercato dalla polizia russa, che è stato in prigione in Polonia e che poi, evaso, sarebbe riparato in Finlandia. Esodo fece la sua prima apparizione sul web, poi fu pubblicato dall’autore in poche copie per ottenere infine grande risalto sulle pagine di «Znamja». Certo i tratti fortemente romantici della biografia dell’autore potrebbero far pensare a un falso letterario, o anche a un libro collettivo, scritto a più mani, una sorta di manifesto di uno specifico gruppo della subcultura anarco-rivoluzionaria della gioventù russa. Ne è prova l’interesse per la biografia di antieroi del mondo occidentale, da Unabomber al musicista nero Billy Jones, a Jesus Christ Allin (e non senza evidenti consonanze con gli articoli di Wikipedia) e, in particolare, i tanti rimandi a manifestazioni della subcultura pop come nel caso del gruppo punk rock americano Anti-Flag nel cui repertorio troviamo la canzone Exodus.
Esodo presenta poi, già nel titolo, tutta una serie di riferimenti biblici che meritano di essere sottolineati. Il gruppo di giovani skinhead rossi è mosso dal desiderio di fuggire dalla schiavitù dei nuovi Faraoni della Russia odierna e dal conseguente stato di malessere e di emarginazione. Non sappiamo se l’esodo tanto atteso poi si realizzi, ma tutto il testo è percorso da toni di visionario profetismo. I frequenti riferimenti ai testi sacri, anche per la loro non canonicità, sembrano derivare da una serie ampia e eterogenea di fonti, ivi compreso, ovviamente, il romanzo Exodus di Leon Uris. In definitiva, quest’opera offre un ulteriore punto d’osservazione sull’odierno malessere della società russa e, nel contempo, ne mette a fuoco tutta la tragica e violenta vitalità creativa. Una dimensione lontana anni luce dal piccolo vuoto mondo autosoddisfatto del filone glamour che insieme ai serial televisivi ipnotizza il pubblico piccolo-borghese e riempie gli scaffali di chioschi e librerie.

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