La politica e il peso della mitezza

«Una sinistra senza popolo e un populismo senza sinistra». Con all’orizzonte «più la disgregazione greca che l’alternativa francese». Non poteva dir meglio Ida Dominijanni, nell’indicare la prospettiva aperta dal voto italiano della scorsa settimana, così diverso da quello tedesco. L’impressione che offrono i risultati, a volerli guardare con lo sguardo freddo della matematica, è che qui i grandi contenitori messi su alla bell’e meglio nell’ultimo quinquennio intorno alla folle idea di un maggioritario egemonico e bipolare (per usare il linguaggio veltroniano) si stiano rompendo, o pesantemente incrinando, lasciando fuoriuscire il proprio contenuto in un (ancora asimmetrico) processo di liquefazione del corpo elettorale.

«Una sinistra senza popolo e un populismo senza sinistra». Con all’orizzonte «più la disgregazione greca che l’alternativa francese». Non poteva dir meglio Ida Dominijanni, nell’indicare la prospettiva aperta dal voto italiano della scorsa settimana, così diverso da quello tedesco. L’impressione che offrono i risultati, a volerli guardare con lo sguardo freddo della matematica, è che qui i grandi contenitori messi su alla bell’e meglio nell’ultimo quinquennio intorno alla folle idea di un maggioritario egemonico e bipolare (per usare il linguaggio veltroniano) si stiano rompendo, o pesantemente incrinando, lasciando fuoriuscire il proprio contenuto in un (ancora asimmetrico) processo di liquefazione del corpo elettorale.
La cosa è particolarmente evidente nell’implosione catastrofica del centrodestra, che vede in molti casi letteralmente polverizzato il proprio consenso nelle sue stesse roccaforti. È il caso della «Brianza del mobile» (detta anche «il Mugello del centrodestra») dove ancora nel 2010 «il Pdl viaggiava tra il 30 e il 38% e la Lega tra il 25 e il 35% mentre oggi sono crollati rispettivamente tra il 7-15 e l’11-20» (cito da La Stampa). O del Gallaratese (distretto dell’abbigliamento) dove a Cassano Magnago, il paese di Bossi, il leghista Morniroli non va nemmeno al ballottaggio con la Lega quasi dimezzata dal 32,2 al 19,3%. Ma – e qui il gioco si fa duro – lo smottamento in corso non risparmia neanche il centrosinistra e in particolare il Pd, che pure a caldo si era affrettato a cantare vittoria e che comunque porta a casa un buon numero di scrutini vinti al primo colpo o di buone posizioni nei ballottaggi.
Sarebbe infatti un errore fermarsi alle bandierine che il centrosinistra può piantare sull’ipotetica mappa di Emilio Fede di tanti anni fa. E anche limitare il conto ai soli dati in percentuale, che favoriscono l’illusione ottica (quando tutti scendono, chi perde di meno appare vincitore). Se, più correttamente, facciamo il conto in valori assoluti, confrontando i voti ricevuti nel 2012 con quelli del 2007, vediamo che anche nel caso del Pd l’emorragia è in corso. E spesso in misura massiccia.
Così è nelle grandi città, lo sappiamo: a Palermo in modo quasi grottesco, a Parma, a Piacenza e persino a Genova e ad Alessandria, dove pure il centrosinistra si presenta con ottimi candidati. Né la situazione migliora – per il Pd – nei piccoli centri, in particolare nei distretti dove la crisi morde di più, e mina l’insediamento leghista e berlusconiano. A Omegna, per esempio, capitale del «distretto dei casalinghi», dove l’amministrazione di centrodestra in carica è crollata miseramente (la Lega dal 13,9 all’8,1 e il Pdl dal 30,5 al 17,3%), la candidata del centro-sinistra vince, ma con un numero di voti inferiore a quello con cui cinque anni prima aveva perso (3.900 contro 4.100).
O nel «distretto del prosecco» – la terra di Zaia e dei suicidi – dove il partito di Bossi cade dal 36,9% del 2010 al 5,6 di oggi, e il Pdl perde una quindicina di punti, e tuttavia il Pd resta comunque in debito di qualche migliaio di voti rispetto alla precedente somma di Ds e Margherita. E d’altra parte non sarà senza significato se nelle aree della Toscana, suoi tradizionali territori d’insediamento, come il «distretto orafo» dell’aretino, il Pd preferisca mimetizzarsi dietro una miriade di liste civiche, vincenti, certo, ma eloquenti.
La verità è che, del travolgente flusso di suffragi in uscita dal centrodestra in crisi, né il centro di Casini né tantomeno il Pd hanno intercettato anche solo una minima frazione. Anzi, quest’ultimo ha contribuito all’emorragia senza che, a sua volta, la cosiddetta sinistra radicale sia riuscita a raccoglierne i rivoli, che si sono riversati direttamente altrove. Nell’astensione, in grande quantità. E nelle liste del Movimento 5 stelle che, a leggere l’analisi dei flussi disponibile, dal Pd avrebbe raccolto più del 24% del proprio elettorato, un 16% dalla Lega nord, un 13,5% dal Pdl e un buon 30% dall’astensione.
Il messaggio sembra fin troppo chiaro. Il processo di liquefazione del sistema dei partiti attuale è massicciamente in corso, e sembra destinato a proseguire. Non sappiamo quale dimensione avrà questa «massa liquida» alla vigilia delle elezioni del 2013: una delle più importanti scadenze elettorali della storia dell’Italia Repubblicana, quella in cui dovrebbe manifestarsi la riscossa della politica dopo la resa al governo dei tecnici. Ma certamente l’intreccio perverso tra crisi economica e crisi politica è destinato a virulentizzarne le componenti, ed il rischio che quella sostanza liquida possa solidificarsi e produrre “mostri” è evidente. Né vale ripetere l’ormai insopportabile esorcismo dell’invito liturgico ai partiti, nella loro attuale configurazione, a «rigenerarsi» o comunque ad «auto-riformarsi».
All’auto-riforma di questi soggetti politici penso che ormai non creda più nessuno. Neppure chi, dai massimi livelli istituzionali, continua un po’ meccanicamente a ripetere l’appello. Troppi tentativi. Troppi «nuovi inizi» mancati. Troppi girotondi traditi. Senza una «soluzione di continuità» – senza una cesura netta, di metodo, con le pratiche e con gli stili di comportamento politico e istituzionale attuali – il meccanismo infernale dell’entropia politica e della delegittimazione istituzionale andrà avanti. Non è anti-politica denunciarlo. È antipolitica continuare ad alimentarlo da parte di chi, ai vertici delle attuali forze politiche, insulta ogni giorno il buon senso dei propri elettori con una retorica del conforme ormai stucchevole.
Per questo sono in totale disaccordo con l’amica Rossana Rossanda quando snobba i discorsi sul «metodo». E confida che quel rassemblement di macerie possa seguire l’esempio francese di Francois Hollande. Intanto perché l’aver ignorato le questioni di metodo è stato il peccato capitale del vetero-comunismo novecentesco (un termine che la fa imbestialire, lo so, ma che bisogna pur pronunciare). E poi perché proprio dal modo di concepire e di fare la politica – dallo «stile» e da un suo salto di paradigma – può partire una possibile speranza di rinascita. Poi si potrà discutere dei contenuti, ma con (e all’interno di) contenitori diversi. Qualitativamente diversi. Si potrà parlare dell’Europa, in primo luogo: a quali condizioni starci dentro. Con quali prezzi. E sul che fare se la Germania continuerà a stringere il cappio al collo dei suoi partner comunitari fino a provocarne l’asfissia (asfissiare? Forzare sull’asse francese mettendo in conto anche la rottura con i tedeschi? Immaginare un’area monetaria ampia ma diversa, con baricentro sul Mediterraneo?). Di tutto questo si può parlare, ma sapendo che con l’attuale ceto politico, irrimediabilmente abituato a guardare «dall’alto», inseparabilmente intrecciato con le tecnocrazie comunitarie e con i sensi (non solo la vista, anche l’udito e l’odorato) affinati unilateralmente sulla interazione con i poteri forti o fortissimi, c’è poco da sperare in un’alzata d’ingegno. O in un approccio «creativo». O anche solo smarcato rispetto al mainstream globale.
Allo stesso modo si potrà ragionare di finanziamento pubblico della politica. Ma sapendo che tutto è inutile se non si taglia alle radici l’attuale tossico intreccio tra politica e denaro: l’innervarsi del flusso monetario nelle strutture portanti della rappresentanza politica come sono oggi. Non per questioni di moralismo. Ma per un problema strutturale: perché la potenza trasformante della forma denaro è irresistibile, se ci si lascia possedere. E la «forma denaro», oggi, è la forma del mondo che vogliamo combattere.
Così come si dovrà scavare a fondo nell’analisi delle classi, e sulle forme del loro conflitto. Ma sapendo che la geografia sociale dell’universo post-fordista è mutata radicalmente. Che se ci si vuole sintonizzare con il lavoro come esso si pone, occorre fare i conti con tutte le sue figure – con l’intero ventaglio di soggetti che l’esplosione del «diamante del lavoro» ha disperso, non più solo con i suoi protagonisti (materiali e simbolici) centrali. E che termini come comunità o territorio hanno cessato di appartenere al lessico maledetto per una sinistra pura, ma s’intrecciano sempre più con i precedenti concetti di classe e di nazione, in un quadro molto complesso, e tutto da capire.
Per questo nel «Manifesto per un soggetto politico nuovo» diamo tanto peso al tema della mitezza. Non perché si sia rinunciato alla lotta (come si diceva una volta). O perché ci si sia votati a una concezione idilliaca di un mondo conciliato. Esattamente per la ragione opposta: perché crediamo che oggi le condizioni del conflitto siano così profonde, estese, radicali ed estreme (vertano su questioni ultime, per così dire, come la sopravvivenza delle società e degli individui), che se esso non viene condotto con linguaggi e con metodi non distruttivi, auto-sorvegliati e radicalmente rispettosi dell’altro, le possibilità di precipitare in una situazione di conflittualità devastante (contrassegnata, appunto, dal termine «guerra») siano drammaticamente presenti. E che se si vuole che la politica sopravviva come arte della costruzione di una società condivisa, dall’antropologia del mite, e non da quella del guerriero, si debba partire.

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