LA POLITICA COME ORIZZONTE, PER RIPARTIRE

Il Manifesto del «soggetto politico nuovo» – e l’iniziativa di incontro che ne è scaturita – ha meriti notevoli. Innanzitutto il merito non banale di aver smosso la palude di lungo corso dell’orizzonte politico italiano e di aver individuato, con la spregiudicatezza che pare necessaria, nei problemi strutturali (il rapporto capitale-lavoro ad esempio) solide radici alle questioni di forma. I promotori del Manifesto prendono atto con chiarezza che i problemi di forma (la crisi della tipologia “partito”) non si risolvono parlando di forma e di schemi di ingegneria organizzativa: la crisi della forma ha origine nella sostanza.

Il Manifesto del «soggetto politico nuovo» – e l’iniziativa di incontro che ne è scaturita – ha meriti notevoli. Innanzitutto il merito non banale di aver smosso la palude di lungo corso dell’orizzonte politico italiano e di aver individuato, con la spregiudicatezza che pare necessaria, nei problemi strutturali (il rapporto capitale-lavoro ad esempio) solide radici alle questioni di forma. I promotori del Manifesto prendono atto con chiarezza che i problemi di forma (la crisi della tipologia “partito”) non si risolvono parlando di forma e di schemi di ingegneria organizzativa: la crisi della forma ha origine nella sostanza.
In più, l’aver riconosciuto una validità generale al tema dei “beni comuni”, elaborato negli ultimi anni a partire dalla battaglia sull’acqua pubblica e dalle esperienze di movimento che ne sono seguite, restituisce cittadinanza a un terreno altro dal mercato ma anche dalla prospettiva pubblica statale su cui si inizia a elaborare un nuovo lessico giuridico. E la ricchezza del dibattito ha toccato l’esigenza di un linguaggio dei beni comuni, come forma di avanzamento teorico-politico essenziale, ma anche in nome del rifiuto di un immaginario subalterno ai rapporti sociali dominanti (il linguaggio è un organismo vivente e deve modificarsi in base alle nuove cose che ha da dire). Tutto questo rappresenta il primo passo per la costruzione di una nuova egemonia, sostitutiva di quella neoliberista.
E tuttavia, la volontà, espressa da Alberto Lucarelli e Ugo Mattei (il manifesto 17/4), di partecipare al prossimo appuntamento elettorale come «uno degli strumenti di lotta politica in campo» lascia perplessi. Non foss’altro per la “naturalità” con cui è espressa. L’idea è che, accantonato il modello leninista e gramsciano, bisogna pensare a un nuovo schema di ‘partito di sinistra’. Come dire che il soggetto politico nuovo intende la politica secondo un paradigma classico come forma della società e considera necessaria una costruzione federativa unitaria di movimenti in vista della costituzione di un partito politico tradizionale.
Questa impostazione rischia di inficiare non poco la novità del progetto, che, dal punto di vista teorico, si rivela coerente con l’idea, assai praticata anche a sinistra, che la democrazia dal basso sia cosa bella e nobile, ma non ci si possa esimere dal partecipare alle tradizionali forme di rappresentanza, nonostante i vizi e i vizietti ben noti. Ora, al di là di ogni considerazione valoriale sui problemi di una rinnovata enfatizzazione del paradigma di un “politico” sovraordinato rispetto al “sociale”, ci si chiede in che misura oggi un programma siffatto possa rappresentare un baluardo contro le logiche prevalenti che ci ammorbano. C’è il rischio che un simile paradigma non solo non faccia attrito, ma costituisca un adeguamento ai vecchi rapporti di forza che porti dritto alla subalternità ai governi “tecnici”.
Intendiamoci: si è ben consapevoli che la dimensione dell’orizzontalità da sola non possa essere sufficiente, pena il rischio di alimentare derive di volontarismo antipolitico. Né si tratta di glorificare l’autonomia del legame sociale in quanto tale, nella convinzione che la società civile possa gestire la cosa pubblica direttamente, senza le forme della mediazione istituzionale. Si è assolutamente persuasi che vadano definite con chiarezza le linee guida dell’azione collettiva: solo sulla scorta di un’idea alternativa di assetto sociale ed economico è possibile intraprendere la lotta per la trasformazione dell’esistente. Senza una bussola politica anche i “beni comuni” rischiano di essere fagocitati dalla voracità del mercato (basta dare un’occhiata all’iniziativa, promossa dalla Fondazione Cariplo a Milano e sostenuta dal Sole24Ore, al sito www.fondazionecariplo.it).
Il vero nodo è cosa si intenda per ‘politico’. Noi proporremmo: non adesione o ingresso in nuovi o vecchi partiti, non nuove candidature ed elezioni, non amministrazione e gestione, ma orizzonte di riferimento e complessità dell’intreccio di questioni. Occasione da cogliere per spingere più in alto il problema e trovare più in alto la soluzione. Si è detto che si vuole rilanciare un nuovo impegno, ma noi diremmo anche un’altra forma di impegno, perché non possiamo solo vivere questa occasione come un tempo a disposizione per fare le stesse cose di prima ma un po’ di più; dobbiamo produrre un avanzamento del modo e delle domande. Quando se non adesso?
Tanto più che le molteplici esperienze di conflitti e buone pratiche dei movimenti che operano da tempo nel territorio dei “beni comuni” non sono certo l’espressione del solito “partito dei cittadini” e paiono attrezzate per questo passaggio: sperimentare forme radicalmente nuove di responsabilità e pratica politica, riacquistare sovranità sulle proprie vite, rifiutare l’ennesima delega a qualcuno.
Per far questo occorre certo una modalità condivisa di collegamento delle lotte che si riconoscono in un territorio comune. Ma come condizione necessaria c’è il definitivo congedo dal bagaglio teorico e dalla pratica politica delle attuali formazioni della sinistra. Altrimenti, il progetto rischia di risolversi nell’aggiunta di una nuova, ennesima sigla a quelle attuali. Più politica come orizzonte, meno politica come gestione, dunque.
Tanto più allora ci ha stupito leggere che «l’egemonia passa attraverso l’abbattimento delle barriere fra destra e sinistra». È chiaro che gli autori si riferiscono all’opportunità di creare un nuovo senso comune (come lo è stato il neoliberismo), ma per questa strada non si scivola pericolosamente nel radicalismo post-ideologico e nella cultura “americana” della civicness?
Infine, ma non in ultimo, ci sentiremmo di suggerire un altro nodo da sciogliere, che non ha ancora trovato posto nel dibattito sul programma. Nei territori da liberare andrà considerato, con dignità autonoma, quel bene comune – intangibile e necessario – della produzione della conoscenza e dei saperi.
Al fine di promuovere la concezione della ricerca e della conoscenza come beni comuni, di contrastare l’appropriazione privata dei saperi e la recinzione dei linguaggi, si sono costituite a Bologna, lo scorso 24 marzo, le Assemblee nazionali «Università bene comune» e «Scuola bene comune». La prima iniziativa, promossa dall’assemblea, è un sondaggio aperto a tutti i cittadini/e sul valore legale del titolo di studio, alternativo alla consultazione del Miur sullo stesso argomento (il link per rispondere al questionario è: www.di.unito.it/valorelegale/).
Anche da questa strada si può ripartire per ripensare il senso di una battaglia generale contro lo smantellamento del sistema pubblico di produzione e trasmissione del sapere. In gioco non c’è solo il destino degli studiosi presenti e futuri (di tanti precari, di tanti studenti, di tanti insegnanti). C’è il ruolo che una società attribuisce alla ricerca teorica, alla cultura e alla libertà di pensiero.
*Università bene comune

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