La felpa dorata di Mark Zuckerberg

La Rete ha assistito con distacco alla quotazione di Facebook nel Nasdaq. Timori che alimenti una bolla speculativa destinata a scoppiare, ma anche quesiti sulle sue potenzialità  innovative Sorridente con la sua discussa felpa e circondato da festanti dipendenti, ieri Mark Zuckerberg ha virtualmente suonato la campana per dare il via alla quotazione in borsa di Facebook.

La Rete ha assistito con distacco alla quotazione di Facebook nel Nasdaq. Timori che alimenti una bolla speculativa destinata a scoppiare, ma anche quesiti sulle sue potenzialità  innovative Sorridente con la sua discussa felpa e circondato da festanti dipendenti, ieri Mark Zuckerberg ha virtualmente suonato la campana per dare il via alla quotazione in borsa di Facebook. Sapeva già che alla fine della giornata avrebbe accresciuto il suo patrimonio di molti miliardi di dollari. Centinaia di milioni andranno a finire, ovviamente ripartiti, tra i fortunati dipendenti che avevano avuto la loro razione di stock option . Mentre passavano le ore, la Rete ha assistito alle contrattazioni di Wall Street con un sentimento ambivalente. Da una parte, il timore che la quotazione iperbolica di Facebook – 104 miliardi di dollari – possa alimentare una bolla speculativa dagli esiti incerti.. Il rischio che possa esplodere ha infatti impresso un iniziale andamento lento nella vendita delle azioni, che hanno visto una accelerazione solo a metà giornata. Ma in Rete c’è stato poco entusiasmo, a differenza di quando il suo concorrente più agguerrito, Google, sbarcò a Wall Street. Facebook, infatti, è molto usato, ma anche guardato con sospetto. In fondo, è solo un sito che ha l’unica utilità di scambiare messaggi con i propri amici e di postare banali pensieri su argomenti che catturano l’attenzione per poche ore. Inoltre, Facebook è considerata un’impresa che offre ben poche cose agli utenti di Internet. Niente a che vedere con quanto fanno e consentono di fare Google, Apple, Microsoft, Amazon. Nessun motore di ricerca, nessun software per navigare, nessun programma per scrivere e far di calcolo. Solo una bacheca da riempire di parole, immagine. Non è cioè una impresa che conta davvero per stare in Rete. In altri termini, l’impresa di Mark Zuckerberg non è cioè innovativa. È uno strumento divertente, ma niente più. Non ha cioè le potenzialità per diventare uno dei porti di imbarco per la Rete. Certo, ha novecento milioni di utenti e non ci sono segnali di rallentamento nella sua crescita, ma deve vedersela con Twitter, che è una impresa che corrisponde più a quella tendenza della comunicazione in tempo reale che la convergenza tra telefonia e Rete sta diventando uno standard su Internet. Facebook ha ovviamente le possibilità di essere usato da chi – e sono ormai la maggioranza degli internauti – utilizza il telefono cellulare per stare in Rete. Ma è un «servizio» percepito come paludato, poco dinamico, insomma un’impresa che non sta reggendo la «velocità» dei mutamenti della Rete. E la percezione, più che ciò che accade conta moltissimo nel cyberspazio. Inoltre, sono pochi gli analisti del settore che reputano Facebook una impresa innovativa. Il giudizio più aspro che accompagna Zuckerberg è infatti di fare mash-up , cioè di assemblare efficacemente softwar già esistente, ma di non riuscire a svilupparne uno autonomamente. Allo stesso tempo, la critica alla sua policy sta pregiudicando non poco il grado di consenso al suo operato. Facebook è cioè considerato troppo politically correct e che non tollera presenze troppo critiche verso lo status quo. C’è anche chi punta l’indice contro il suo modello di business. In fondo è una impresa che elabora le informazioni personali che, gratuitamente, gli utenti gli forniscono per poi rivenderle. È cioè un’impresa che fa della violazione della privacy la sua stella polare. Critiche spesso fondate, anche se Mark Zuckerberg ha sempre affermato che le informazioni personali sono elaborate in maniera tale che è difficile risalire all’utente che le ha fornite. Al di là delle critiche e dei dubbi sulle potenzialità di Facebook, la quotazione in borsa avviata ieri coincide con la fine della sua fase «adolescenziale». La sua entrata in società consentirà di verificare tanto le sue potenzialità, ma anche i suoi limiti. Nelle settimane scorse, Facebook ha acquistato poco più di un mese fa la società Instagram, specializzata in un software per scaricare e manipolare immagini dalla Rete. Un’operazione di quasi un miliardo di dollari e che è stata vista come una scelta di Facebook di confrontarsi alla pari con Apple e Google per quanto riguarda le applicazioni per i telefoni cellulari. Ma è tuttavia una scelta che rafforza il suo core business e non colma nessuna delle caselle vuote per quanto riguarda altri tipi di software necessari per diventare appunto il ponte di imbarco per Internet. La cosa da capire è se il fiume di dollari che è entrato nelle sue casse servirà o meno a colmare quelle caselle vuote. Una cosa però è certa. Con la quotazione in borsa di ieri, Zuckerberg è riuscito nel sogno adolescenziale di diventare un uomo potente e ricco. Chissà se riuscirà a realizzare l’altro sogno: diventare un uomo che resterà nei libri di storia della Rete. Sono in molti che si ritroveranno più ricchi dopo la quotazione in borsa di Facebook. Uno di questi ha un nome noto anche al di fuori del cyberspazio. È il cantante degli U2 Bono, che nel ha acquistato il 2,3% di Facebook per 90 milioni di dollari: una partecipazione che con l’Ipo di ieri secondo i calcoli di Elevation Partners – salirà a 1,5 miliardi di dollari. Bono diventerà così la più ricca rockstar del mondo. Prima dell’ipo, Bono

PAPERON DE PAPERONI

ha accumulato 900 milioni di dollari in 30 anni sul palcoscenico.

Il profilo miliardario di Bono, voce degli U2

L’INDIVIDUALISMO PAGA Dopo l’animatore delle campagne di solidarietà e contro la fame nel mondo e per cancellare il debito dei paesi africani, ad arricchirsi con l’Ipo di Facebook è Peter Thiel. Invistitore della prima ora, Thiel possedeva 44,7 milioni di azioni che dopo la quotazione in borsa varranno 1,6 miliardi di dollari. Fin qui tutto normale, ma Peter Thiel è un personaggio inquietante, all’opposto dell’immagine compassionevole del cantante degli U2. Infatti ha fondato PayPal (venduta poi), ma è noto per le sue posizioni radicali a favore del libero mercato e della competizione come una regola per le relazioni internpersoanli. DA GOOGLE A FACEBOOK L’altra Paperon de Paperoni è Sheryl Sandberg, la manager che ha lasciato nel 2008 Google (suscindando le ire di Larry Page e Sergej Brin) per il rivale Facebook. Dall’ipo ricaverà 1,4 miliardi di dollari.

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