La prima volta di una donna alla testa del più grande sindacato italiano e le connesse questioni di genere. Il tema della democrazia economica. Il ruolo del pubblico e dello stato. Welfare, familismo, cura. Precariato, lavoro autonomo e subordinato
Anticipiamo qui parte della lunga intervista a Susanna Camusso a cura di Alfiero Grandi, Alberto Leiss e Chiara Valentini, che appare sul numero di Critica marxista, che esce in questi giorni e che verrà presentato oggi alla Fondazione Di Vittorio a Roma.
La prima volta di una donna alla testa del più grande sindacato italiano e le connesse questioni di genere. Il tema della democrazia economica. Il ruolo del pubblico e dello stato. Welfare, familismo, cura. Precariato, lavoro autonomo e subordinato
Anticipiamo qui parte della lunga intervista a Susanna Camusso a cura di Alfiero Grandi, Alberto Leiss e Chiara Valentini, che appare sul numero di Critica marxista, che esce in questi giorni e che verrà presentato oggi alla Fondazione Di Vittorio a Roma.
Per la prima volta la Cgil è diretta da una donna. È una novità politica e sociale di grande peso, tanto più in una fase così difficile e tormentata, segnata da contrasti acuti con il governo e con la Confindustria. Qualcuno si era augurato che la presenza contemporanea di tre donne nella trattativa sul mercato del lavoro – Susanna Camusso, Emma Marcegaglia ed Elsa Fornero – avrebbe aiutato la definizione di buone soluzioni, avrebbe favorito un accordo. Le cose sono andate diversamente. Ma come hai vissuto queste aspettative e rappresentazioni del ruolo femminile?
Emma Marcegaglia ha concluso il mandato dicendo all’assemblea di Confindustria: sono stata la prima donna perché nelle fasi difficili tocca alle donne. Un luogo comune che ritorna e che contiene una parte di verità, ma non credo valga per la Cgil. La prima volta di una donna segretario generale – una prima volta che pesa anche perché i segretari generali nel dopoguerra sono stati pochi, e solo recentemente è stata introdotta una regola per la durata dei mandati – credo sia il frutto di una lunga esperienza voluta e agita fondamentalmente dalle donne. Abbiamo costruito davvero una organizzazione di donne e uomini, pur con tutti i problemi che restano, e questo ha determinato un riflesso anche al massimo livello. Poi ovviamente, vale anche quello che si pensa all’esterno, mi è chiarissima tutta la responsabilità del mio ruolo. Mi domando ogni giorno: se sei la prima, ciò che fai determina il giudizio su di te, ma anche sul tuo genere. È una grande responsabilità e lo è ancora di più perché tante dirigenti sindacali, semplici iscritte, lavoratrici, hanno vissuto questa novità come un risultato collettivo. L’ho percepito fisicamente, soprattutto all’inizio, con la maggiore presenza femminile alle assemblee, agli attivi dei delegati. Donne spinte da curiosità, certamente, ma anche con il sentimento di un investimento comune. Quindi una delle fatiche è stata e resta tenere l’equilibrio tra questa novità al vertice di un grande sindacato di donne e uomini, e il ruolo di una organizzazione di rappresentanza.
La Cgil sta svolgendo, da sola ma anche insieme ad altri sindacati, un ruolo di supplenza politica. E’ una grande organizzazione di massa, mentre i partiti appaiono sempre più gracili, sotto i colpi dell’antipolitica. Al sindacato si rivolge una domanda che va anche al di là di ciò che è giusto chiedere a una organizzazione di rappresentanza del lavoro. Come risponde la Cgil a questa domanda, senza perdere il ruolo che le è proprio?
È una realtà ben presente ed esplosiva considerando la somma tra crisi economica e crisi politica. Se è scontata l’attesa di una nostra risposta per la difesa del lavoro e delle sue condizioni, e la richiesta di agire per il welfare e il benessere sociale, noi avvertiamo anche – e più di quanto è avvenuto in altre occasioni, come il passaggio del 1992-1993 – una domanda di etica pubblica. È una cosa che parla dello stato molto difficile e rischioso del paese. Noi siamo visti, non da tutti ma da molti, come un soggetto abbastanza immune dai vizi che vengono attribuiti alla politica. Io vedo soprattutto due problemi: il primo è che dobbiamo fare una grande attenzione a non diventare un canale dell’antipolitica, tentazione che ogni tanto vedo emergere in altri settori sindacali. In questo momento se si va in un’assemblea e si parla male della politica si viene travolti dagli applausi. Ma guai ad assecondare una spinta che al fondo è autoritaria e antidemocratica. Quindi, per quanto sia molto difficile, dobbiamo rispondere a questa aspettativa rivolta verso di noi non certo per la continuità di questa politica, ma schierandoci con un nostro punto di vista per una riforma della politica. Di questo punto di vista fa parte naturalmente l’idea che il lavoro torni al centro della politica, ma anche il fatto che la politica riesca a costruirsi un proprio insediamento solido. A rischio di apparire eretica, voglio dire che tra l’enfasi sulle primarie, i personalismi e i leaderismi, la virtualità dei partiti, si è finito per vanificare la possibilità che la politica sia un luogo di partecipazione effettiva. Dove ci si possa esprimere, contare nelle scelte. In fondo noi appariamo diversi proprio perché siamo una realtà di massa, e non possiamo né vogliamo sottrarci a un rapporto con i lavoratori, le assemblee, gli attivi, le manifestazioni. Credo che qui risiede il nostro “fascino”.
Il secondo problema che vedo è però che la domanda verso il sindacato guarda a un soggetto capace di indicare un’alternativa, un’altra idea di società. In questo caricandoci di una responsabilità molto generale, che va oggettivamente al di là della nostra funzione. Ma sono anche convinta che anche a questa richiesta dobbiamo sapere rispondere, sia pure interpretando diversamente la domanda. In una frase: non possiamo essere noi l’alternativa, ma possiamo contribuire a tenere aperta la prospettiva di un’alternativa. Per esempio, rappresentare un interesse generale non vorrà certo dire accettare politiche rigoriste sul debito che rischiano di uccidere l’economia e gli italiani. No, vogliamo occuparci di cittadini, lavoratori, imprenditori vivi. Serve quindi un’altra politica. (…) E poi bisogna avere ben presente che gli iscritti alle organizzazioni sindacali oggi sono molto più plurali, non è possibile farli coincidere strettamente con uno schieramento politico. Possono invece riconoscersi in una idea generale di cambiamento. Certo in questo momento non aiuta il ruolo di un governo sostenuto da una maggioranza trasversale e anomala, in cui il gioco tra alternative diverse è reso troppo opaco. Anche per questo il sindacato è spinto a svolgere un ruolo che non gli è proprio.
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