Il lavoro del partigiano

Il lavoro precario è usurante, «moltiplica il rischio di malattie ed è un vero mobbing sociale». Lo sostiene in una ricerca anticipatrice Rosario Bentivegna, il gappista di via Rasella scomparso tre mesi fa. Fu instancabile resistente anche da medico condotto, o «pratico» come diceva lui. Da questa esperienza parte la sua indagine sull’uso disinvolto della «flessibilità » da parte dei datori di lavoro. Allora fenomeno emergente, oggi di dilagante e di drammatica attualità 

Il lavoro precario è usurante, «moltiplica il rischio di malattie ed è un vero mobbing sociale». Lo sostiene in una ricerca anticipatrice Rosario Bentivegna, il gappista di via Rasella scomparso tre mesi fa. Fu instancabile resistente anche da medico condotto, o «pratico» come diceva lui. Da questa esperienza parte la sua indagine sull’uso disinvolto della «flessibilità » da parte dei datori di lavoro. Allora fenomeno emergente, oggi di dilagante e di drammatica attualità 

Il lavoro precario può indurre una “malattia da lavoro”? È il quesito che Rosario Bentivegna si pose per tempo, fin dal momento in cui avvertì che la precarietà stava diventando l’esperienza comune di milioni di lavoratori, soprattutto giovani. Lo spingeva all’analisi del grave problema che andava emergendo, la sua vita di medico del lavoro, fondatore insieme a Gastone Marri di quella Rassegna di medicina dei lavoratori che tanto ha meritato nel campo della conoscenza. Perché fu elemento attivo nel passaggio dalla medicina sindacale (delegata al sindacato nella tutela contrattuale) alla medicina dei lavoratori fondata sulla nuova metodologia della “epidemiologia del gruppo operaio omogeneo”. Ossia sull’analisi delle patologie comuni ad un gruppo di lavoratori, rintracciandone le cause nelle condizioni dell’ambiente e delle modalità di svolgimento del lavoro.
Insomma, non bastava più contrapporre al medico dei padroni il medico del sindacato, ossia una metodologia di parte contraria, ma doveva essere costruito un differente rapporto tra operai, i diretti interessati, e medici, i tecnici della salute, in modo che si potesse riconoscere e combattere la nocività e trasformare l’organizzazione aziendale.
I tempi della medicina migliore
Altri tempi: fu un rinnovamento culturale e politico decisivo di tanta parte della migliore medicina, che condusse alla riforma sanitaria. La prevenzione si trasformò da mito in un enunciato che apriva alle lotte contro gli infortuni, la nocività ambientale e l’inquinamento, suscitando iniziative nelle fabbriche e nei territori. Che, poi, tra i tanti fattori negativi che hanno influito sul riflusso di quelle esperienze e della stessa riforma sanitaria vi fosse anche la diffidenza e spesso l’ostilità di strutture sanitarie, universitarie e di amministrazioni centrali e locali verso la partecipazione (e lo stesso «carattere della direzione sindacale più orientata al consenso che alla partecipazione» come rilevò Sasà), sarebbe oggi da meditare, a fronte di un desiderio di partecipazione che tuttora stenta a trovare la via del riconoscimento.
I lavoratori, e le persone tutte, vanno considerati nella loro unitarietà e nell’interazione con l’ambiente fisico entro il quale vivono, non come la somma di organi e arti. Bentivegna aveva raggiunto questa convinzione nell’attività iniziale di medico condotto, o pratico come anche si definiva, e poi nel rapporto con il mondo del lavoro. Prima nel patronato Inca Cgil, successivamente in quello della Cna, segnò tappe fondamentali nella difesa della salute come il riconoscimento dell’origine lavorativa di tutte le patologie riconducibili all’attività svolta. Sulla base del principio, che oggi di nuovo sarebbe dirompente se fosse ripreso dal movimento democratico che non «è il fattore umano che deve adattarsi alla fabbrica, ma viceversa».
I costi sociali della precarietà
Pubblicò i primi significativi risultati del suo studio sulla precarietà sul giornale dell’Epasa, Cna, nel 2008 (insieme ad Antonio Licchetta). Nel quale, dopo aver definito che cosa possa intendersi con il temine di flessibilità, e come essa giochi differentemente tra soggetti che abbiano la possibilità di variare il loro lavoro ed altri per i quali questa possibilità è un’evenienza assai remota, nota come «l’uso disinvolto che spesso se ne fa, oltre a testimoniare la complessità del fenomeno, conferma l’ampio ricorso, a sfondo ideologico, al termine stesso». Esaminando nel vivo i costi sociali della precarietà, esce «un quadro complessivo desolante che pone in risalto come il lavoratore precario sia sottomesso a un’incertezza costante…l’uomo flessibile è socialmente uno sconfitto e il suicidio di lavoratori precari ha riproposto gli aspetti più inaccettabili».
I danni alla salute
Perché le differenti tipologie di lavoro precario hanno tutte la caratteristica dell’aumento dei rischi alla salute e della riduzione delle disponibilità economiche. I danni alla salute, infatti, consistono in malattie da lavoro professionali o da eziologia multifattoriale, e in danni professionali, socio-economici, alla capacità di sviluppo del lavoratore. I lavoratori precari sono più esposti ai rischi per la sicurezza e la salute, hanno carichi di lavoro ed emozionali maggiori, minore responsabilità del datore di lavoro nei loro confronti, esclusione dai tavoli sindacali. Così, «da tutto quanto sopra abbiamo esposto deriva con chiarezza che il lavoro precario può essere considerato un vero e proprio “lavoro usurante”, derivato da un vero e proprio mobbing sociale, la cui responsabilità va attribuita anzitutto a esasperate esigenze di flessibilità del lavoro, e la cui ricaduta economica grava soprattutto sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti e sui redditi delle piccole imprese individuali, rispetto al contemporaneo aumento del profitto».
Seguivano indicazioni concrete di modifica dei limiti delle assicurazioni obbligatorie, di gratuità del servizio sanitario nazionale, di integrazioni economiche del reddito dei lavoratori precari.
Una dimensione di grande attualità, resa possibile dalla riflessione di un medico appassionato del proprio lavoro e guidato da una cultura lucidamente orientata a capire la società. Un medico che, come il partigiano, aveva un’idea di cittadinanza come militanza civile.

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