Fenoglio privato

“NOSTRA MADRE GLI AFFITTà’ UNA MACCHINA DA SCRIVERE” .    Un nuovo libro della sorella Marisa racconta anche la vita di Beppe: “Noi, impreparati al suo talento” “Fare libri era considerata una cosa stramba, significava essere dei buoni a nulla” 

“NOSTRA MADRE GLI AFFITTà’ UNA MACCHINA DA SCRIVERE” .    Un nuovo libro della sorella Marisa racconta anche la vita di Beppe: “Noi, impreparati al suo talento” “Fare libri era considerata una cosa stramba, significava essere dei buoni a nulla” 
Alla scrittura è arrivata tardi, racconta di sé Marisa Fenoglio da Alba, sorella più piccola di Beppe – undici anni la separano dall´autore del Partigiano Johnny. Compiuti i sessanta. «Non è stata una decisione presa a tavolino, ma nata dalla consapevolezza acquistata con il tempo di avere per le mani un grande tema». E il grande tema è la sua stessa vita, che dal 1957 si svolge in Germania, lontana dai morbidi paesaggi delle Langhe. «A monte c´erano decenni di esistenza da emigrata, come mi potevo chiamare una volta partita dall´Italia». La Germania del dopoguerra, dove arrivavano treni stracolmi di italiani del Sud (anche se lei, Marisa, vi approdava con suo marito, dirigente industriale). La Germania che ancora emetteva l´odore della tragedia nazista, quella che il fratello Beppe aveva vissuto, combattuto e raccontato.
Di Beppe, Marisa Fenoglio aveva narrato in Casa Fenoglio, uscito nel 1995 da Sellerio. Aveva poi pubblicato Vivere altrove, Mai senza una donna e Viaggio privato. Beppe Fenoglio, di cui nel 2012 ricorrono i novant´anni dalla nascita e nel 2013 i cinquanta dalla morte, figura ancora in Il ritorno impossibile, appena uscito da Nutrimenti, un memoir che corre lungo un´elegante, corposa scrittura narrativa. Ci sono Beppe, la macelleria nella Piazza Rossetti di Alba, il negozio che dava da vivere a tutta la famiglia. Ma il perno è una storia più recente, l´acquisto di una casa sul colmo di un colle che domina le Langhe e dove Marisa e suo marito Sergio tornano periodicamente. Tentano, fra quei vigneti, di «venirci a fare gli italiani», che è un modo per riannodare il filo con il passato. Dopo undici anni, però, la casa viene rivenduta. «Le belle speranze non si erano avverate. Il macigno non si poteva spostare, neanche saltuariamente». La vita era altrove. «È un´esperienza che lascia tracce profonde nell´animo di chi la vive, ma il tempo insegna a conviverci, a far sì che Italia e Germania diventino parte di noi, inconciliabili o pacificate, a seconda delle circostanze. Sono a casa in Germania anche se non mi sento tedesca. È un valore di ambiguità e di dilemmi, di arricchimento umano, linguistico e culturale di cui non potrei più fare a meno».
Dal libro emerge anche tanta letteratura, «un inaspettato tesoro di famiglia che condivido, in formato ridotto, con il mio famoso fratello e che è diventato lo strumento naturale della mia testimonianza di cinquant´anni di estero». E un´altra linfa accomuna i Fenoglio. Un certo senso di estraneità a quel che li circonda. «Ci siamo sentiti come uccelli che volano in altri stormi, lo studente Johnny nelle file dei partigiani rossi, io, una studentessa sui treni di emigrati che partivano per il nord, entrambi col miraggio dell´appartenenza. Era forse un´affinità, non solo letteraria, ma di destino».
Nel Ritorno impossibile ecco nuovamente il Fenoglio che, finita la guerra, riprende la vita opaca di una città di provincia. E scrive, scrive tantissimo. La Resistenza è un materiale che vibra nel suo animo. Racconta Marisa: «Pur di darsi una ragione di quel figlio scrittore, in un ambiente che gli scrittori non li prevedeva, li riteneva dei buoni a nulla, persone sospette, che invece di lavorare tenevano la penna in mano, mia madre decise di fornire a lui gli strumenti necessari». Siamo nell´estate del 1947. Un pomeriggio assolato, nella piazza del Duomo la donna incontra la zia Elvira. «”Dove vai?”, chiese la zia. “Vado ad affittare una macchina da scrivere per Beppe”. “Per Beppe? E perché?”. “Vuole scrivere”. “Ma è diventato matto?”. “No. Vuole scrivere. Scrivere libri”. “Allora siete diventati tutti matti”».
In famiglia lo consideravano poco meno che uno strambo… «In famiglia no. Era la piazza del mercato, di cui facevamo parte con il negozio di macelleria dei genitori, a ritenere gli scrittori persone strambe. Sa cosa disse alla fine mia madre a mia zia? Le disse: “Tu non capisci niente. E non hai neanche bisogno di capire. Tu puoi continuare a dare del matto agli scrittori perché li vedi da lontano. Io invece ne ho uno in casa!”».
Di nuovo l´estraneità. Una specie di “benefico esilio”, lo chiama Marisa. Lo scrittore che racconta la Resistenza senza epica. Che coltiva l´inglese, lingua sia della cultura che dell´emotività. Che bandisce i moduli del neorealismo. E che incontra difficoltà ovunque. Il suo esordio, nel 1952, con I ventitré giorni della città di Alba, è accolto con favore, ma non dall´Unità che gli dedica una livida nota anonima. Molto buono è il suo rapporto con Calvino, meno buono con Vittorini. «Noi ci trovammo uno scrittore in casa», riprende a raccontare Marisa Fenoglio. «Col suo talento letterario, covato negli anni della guerra e scoppiato subito dopo, Beppe aveva costretto una famiglia impreparata come la nostra, a fare i conti con ciò che vuol dire scrivere: un´attività piena di intoppi, di cose non dipendenti dalla propria volontà, ma dal consenso altrui, e di usura fisica quasi quanto lavorare in macelleria. Ci furono sorpresa, stupore, incredulità, ma a poco a poco,come dico in Casa Fenoglio, ci si avvicinò a Beppe “con cautela, con sospettoso riguardo e alla fine con rispetto”».
Marisa, la piccola di casa, sentiva quel clima di tensione. «Ma ci furono anche anni tranquilli nella mia adolescenza, quando Beppe, prima che scrittore fu fratello. Con me spendeva poche parole, condite quasi sempre di maliziosa ironia: “Guardatela tutti, lamia sorella preferita”, diceva (ma ero anche l´unica!), “sembra fatta di burro. Èlievitata come una buona torta casalinga!”».
Beppe Fenoglio fu stroncato dal cancro a quarantun anni. Oltre al dolore, quella morte prematura, «impensata in una famiglia di longevi», portò in casa Fenoglio una trasformazione: «Da increduli spettatori diventammo i consapevoli fruitori di un´esaltante, immeritata eredità». Marisa partì per la Germania quando Beppe era ancora vivo ed aveva raccolto i primi riconoscimenti. «Vissi la sua carriera da lontano, presa nei miei problemi di integrazione. Ma arrivò per me il momento della lettura dei libri del fratello. Che nonè mai un passaggio facile. Di uno scrittore il parente stretto è un lettore troppo prevenuto. La curiosità, il piacere, la lezione della lettura sono riservati agli sconosciuti. Ma da quando anch´io mi cimento con la letteratura, tutto è cambiato: pur sempre una lettura particolare, emozionante, ma diversamente consapevole. Come se stessi sulla soglia del suo laboratorio e spiassi le fonti di una creatività che avevo sempre guardato da fuori».
Quando uscì Casa Fenoglio, racconta Marisa, si ebbero reazioni simili a quelle che accompagnarono gli esordi di Beppe, «forse con un´aggiunta di irritazione in più e maggiore perplessità. Nessuno ormai ne aveva più voglia, perché in famiglia uno scrittore c´era già, e tutti sapevano chi era. Ma ho insistito e il tempo mi ha dato ragione».

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