Santana di lotta “Ho ripreso la mia chitarra suona ancora per gli oppressi”

Arriva il 15 maggio il concept album “Shape shifter” dedicato a tutte le popolazioni indigene che abitano la Terra: dagli aborigeni, ai tartari, agli Apache

Arriva il 15 maggio il concept album “Shape shifter” dedicato a tutte le popolazioni indigene che abitano la Terra: dagli aborigeni, ai tartari, agli Apache

Con la sua chitarra ha partecipato ai concerti contro la guerra in Vietnam nel ’69, per il Nicaragua nel ’73, al Live Aid nell’85 per raccogliere fondi contro la carestia in Etiopia.

Nel 2004, quando salì sul palco del Circo Massimoa Roma invitato da Quincy Jones per il concerto “We are the future”, tenne un discorso in favore dell’acqua pubblica. Disse: «Il mio mondo da 25 anni è acqua pubblica e gratis, elettricità, educazione e cibo per tutti gli abitanti del nostro pianeta. Poi possiamo parlare dei problemi che abbiamo come esseri umani». Coerente con questi suoi principi, il chitarrista Carlos Santana torna con un concept album dedicato ai nativi, a quelle popolazioni indigene che abitano la terra da prima che diventasse nazioni, che arrivassero i razziatori, i conquistatori, i tiranni o, semplicemente, il turismo di massa. Il disco si intitola Shape shifter, uscirà il 15 maggio ed è completamente strumentale, vagamente new age. E la chitarra di Santana ha la voce inconfondibile di sempre. Santana, chi sonoi nativi di cui parla in questo album? «Sono gli aborigeni in Australia, i mongoli e i tartari in Siberia, gli indiani del Nord America e, dal Canada al Brasile, le popolazioni che abitavano quelle terre prima dell’arrivo dei conquistadores. In Africa centrale e in Centro-America sono le popolazioni che abitano le foreste. Anche in Europa ci sono popolazioni indigene, più vicine di altre alla loro terra. Dedico quest’album a tutte quelle popolazioni che non hanno più voce e visibilità come i Comanche, gli Apache, i Cherokee, i Cheyenne». Qualcosa è cambiato rispetto a questo problema nel mondo e in America con l’elezione di Obama? «Nel 2008 in Australia il Governo ha chiesto scusa agli aborigeni, nel 2009 l’America l’ha fatto verso gli indiani con la “Native American Apology Resolution”.

Incoraggio tutti i Paesi ad esprimere riconoscenza verso i primi popoli che hanno abitato la loro terra, in modo che questa pratica diventi globale. L’America ha dimostrato che sta imparando a chiedere scusa ma dovrebbe ancora farlo con molta gente: con gli afroamericani, per esempio, con i cinesi, con i messicani, immigrati che hanno contribuito alla crescita del paese, eppure molti sono stati sacrificati. Secondo me la musica può aiutare, è una cura, non è show business o intrattenimento, come ci hanno insegnato Django Reinhardt, Segovia, Jimi Hendrix, John Lennon con Imagine, Bob Dylan con Blowin’in the wind, Bob Marley con One love: la musica ha il potere di portare la gente a non aver paura, a vivere in armonia, nell’unità. Tante canzoni ci hanno insegnato che siamo una sola famiglia».

Ha tenuto conto di modelli musicali tipici di alcune di queste popolazioni iniziando a lavorare a questo progetto? «Credo esista un fattore comune tra molte espressioni di musica tradizionale in luoghi diversi del pianeta, appartengono all’uomo come i sentimenti fondamentali di solitudine, gioia, rabbia, nostalgia. Ma la cosa che ho cercato di fare, ad esempio rispetto agli indiani d’America,è di spostare l’attenzione dal modello imposto da Hollywood nel corso degli anni, di smontare il ritratto negativo dell’indiano cinematografico o l’immagine hollywoodiana dei popoli della Persia o del Medio Oriente, visto che per la maggior dei film sono dei demoni. Gli Studios hanno una mentalità basata sulla cultura della paura, così abbiamo creato focolai di paura nel mondo, e continuiamo a farlo con i nostri network televisivi globali come la Cnn, o con il Pentagono: vendiamo terrore.

Vorrei nel mio piccolo invertire questa tendenza, concentrarmi sui principi su cui era basata la vita degli indiani d’America, rispettare la terra, onorare gli spiriti e l’acqua che tutti beviamo».

Oggi la musica si ascolta via mp3, lei con questo concept album non rischia di essere un po’ fuori tempo? «Per molto tempo ho lasciato che i brani vocali fossero di competenza della mia band, e tutto ciò che componevo solo musicalmente avrebbe dato vita a Shape shifter. Volevo tornare allo stile di Caravanserai, un album strumentale in cui le canzoni si offrano come un tappeto su cui salire per arrivare più lontano di quanto si possa fare seguendo le parole, che ci possono anche tradire.

La mia speranza è che anche i più giovani non si fermino a una canzone prima di arrivare ad ascoltare l’album intero. La cosa principale che distingue questo lavoro rispetto alla mia formula è l’assoluta libertà di far fluire la musica, senza paure di dover dar vita a una nuova formula».

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