Piazza della Loggia, nessun colpevole

A Brescia assolti Carlo Maria Maggi, Delfo Zorzi, Maurizio Tramonte e il generale dei carabinieri Francesco Delfino. Dopo trentotto anni quella bomba non ha una firma. Ai parenti anche l’onere delle spese processuali

A Brescia assolti Carlo Maria Maggi, Delfo Zorzi, Maurizio Tramonte e il generale dei carabinieri Francesco Delfino. Dopo trentotto anni quella bomba non ha una firma. Ai parenti anche l’onere delle spese processuali

Anche Piazza della Loggia finisce nel catalogo delle stragi senza un colpevole. Dopo quattro decenni (esattamente trentotto anni), la giustizia alza bandiera bianca: sarà giunta alla verità, ma non ad una verità che possa dare un volto e un nome agli assassini, che pensarono, organizzarono, che costruirono la bomba e la deposero in un cestino della carta straccia, quella bomba che esplodendo uccise otto cittadini bresciani, ne ferì altri cento, tutti raccolti in quella piazza, la mattina del 28 maggio 1974, insieme con molti altri, proprio per contrastare un’onda di violenze fasciste, di minacce, un’onda che si rialzerà, atrocemente qualche mese dopo, nell’agosto dell’attentato al treno Italicus.
Resta tuttavia, indelebile, la firma di quello e di altri delitti: una firma fascista, nei mesi di maggior debolezza della destra eversiva e delle prime iniziative del governo per mettere fuori causa gli apparati più compromessi dello Stato (è di giugno l’allontanamento del generale Miceli dai vertici del Sid e a settembre Andreotti, ministro della difesa, invia alla magistratura il rapporto informativo dei Servizi sulle trame nere, a partire dal progettato golpe nel 1970 di Junio Valerio Borghese).
Tutti assolti, dunque: il generale dei carabinieri Francesco Delfino; il fascisti di Ordine nuovo Carlo Maria Maggi, il medico di Mestre, e Delfo Zorzi, ormai cittadino giapponese; la spia dei servizi segreti, la fonte Tritone del Sid, lui stesso legato a Ordine nuovo, Maurizio Tramonte. La sentenza è di ieri, letta dieci minuti dopo le undici, dal presidente della Corte d’Assise d’Appello di Brescia, Enzo Platè, che ha pure ringraziato i giudici popolari per l’impegno manifestato durante tutto il processo e nei cinque giorni di camera di consiglio. Non ha dimenticato le parti civili: dovranno rimborsare le spese processuali, perché uno dei ricorsi è stato dichiarato inammissibile. In esecuzione della legge. Walter Veltroni ha proposto che siano i partiti a pagarle.
Tutti assolti, dunque, confermando la sentenza di primo grado un anno e mezzo fa (quando tra gli imputati compariva anche Pino Rauti, innocente pure lui: non sapeva nulla, peccato che a quei tempi fosse ai vertici di Ordine nuovo). In più, di nuovo, la beffa delle spese a carico di amici e familiari delle vittime. Manlio Milani è lo storico portavoce, presidente della loro associazione: «È ridicolo». Ha ricordato come le indagini dei primi giorni siano state inefficaci, come sia stato reticente un uomo dello stato, il generale Delfino. Che allora era comandante del Nucleo investigativo dei carabinieri di Brescia, quindi impegnato nell’inchiesta. Milani ha citato con Delfino anche Pino Rauti, per accusare: «Nel corso di tre anni di processo mai una loro comparsa in aula». Infine la promessa: «Verificheremo l’opportunità di ricorrere in Cassazione».
C’erano ragioni per condannare i quattro? I pm Roberto Di Martino e Francesco Piantoni ne erano convinti e avevano chiesto l’ergastolo. Gli avvocati delle difese, denunciando la totale assenza di prove a carico dei loro assistiti, in un procedimento che conta un milione di pagine agli atti, sono riusciti evidentemente a dimostrare il contrario: come, secondo loro, ad esempio fosse poco credibile il racconto del pentito Carlo Digilio, ex agente della Cia, morto nel 2005 in una casa di riposo nella Bergamasca, colpito da un ictus devastante nel 1995, uno dei padri e degli armieri di Ordine Nuovo, esperto in bombe, o fosse priva di senso la conversazione intercettata e avvenuta tra Roberto Raho e Pietro Battiston, altri due neofascisti, che si confidavano di temere il loro collegamento ai «mestrini», che maneggiavano le bombe e nascondevano gelignite alla trattoria Scalinetto di Venezia, trattoria amatissima da Maggi oltre che da Digilio. Ma non sono state prese in considerazioni neppure le comunicazioni di Tramonte al Sid, con le quali si chiariva la posizione di Maggi e di Zorzi. Altro capitolo riguarda l’esplosivo: contrasti tra i periti, divisi tra gelignite e tritolo.
Il processo, questo come molti altri, si è spento insomma tra le cattive indagini dell’avvio, una trama inesauribile di smentite dopo le ammissioni, un’artefatta confusione di fonti, i depistaggi, la reticenza di chi avrebbe potuto chiarire, altri filoni di inchiesta, altri processi senza esito (ne restò coinvolto uno dei nomi celebri dell’estrema destra bresciana, Ermanno Buzzi, che verrà assassinato nel 1981 in carcere a Novara, in attesa di appello, da Pierluigi Concutelli e da Mario Tuti). La vicenda giudiziaria si è insomma impantanato, lasciando solo amarezza, accanto alla certezza di un senso politico, che può contribuire a una lettura del nostro dopoguerra, ma non può soddisfare la giustizia.
Quel giorno di trentotto anni fa, in piazza della Loggia, morirono Giulietta Banzi Bazoli, Livia Bottardi Milani, Euplo Natali, Luigi Pinto, Bartolomeo Talenti, Alberto Trebeschi, Clementina Calzari Trebeschi e Vittorio Zambarda. Cinque insegnanti, due operai, un pensionato. La bomba esplose, mentre sul palco stava cominciando a parlare un sindacalista della Cisl, Franco Castrezzati. Il botto fu forte, secco, come di un potente petardo. Dopo un attimo di silenzio, dalla folla che cominciò a ondeggiare, s’alzarono le prime grida di paura, di sgomento. Un altro sindacalista, Giorgio Leali, sollecitò tutti ad avvicinarsi al palco. Furono gli stessi operai del servizio d’ordine a portare soccorso. Poi arrivarono le ambulanze, arrivarono polizia e carabinieri. Poco prima delle tredici i pompieri lavarono con gli idranti il luogo dell’eccidio. La scena del crimine ripulita: scomparvero tracce che avrebbero potuto orientare le ricerche. L’inizio dell’inchiesta fu disastroso, come ha ripetuto ieri Manlio Milani. Com’era, ad esempio, a Milano, dopo piazza Fontana, quando vennero fatte esplodere le bombe ritrovate alla Banca Commerciale.
L’esito è l’oscuramento della verità. Che quest’ultimo processo potesse finire così era prevedibile, ma è ancora più grave quando la memoria di quegli anni e di quella violenza eversiva si appanna, quando ad esempio anche un film come «Romanzo di una strage», prodotto e diretto probabilmente con la migliore delle intenzioni, per dare nozione ai giovani di ciò che fu la strategia della tensione, finisce con avvolgere nella nebbia delle cospirazioni e dei complotti internazionali una vicenda chiara, nelle sue ragioni e nei suoi caratteri fondamentali, nel suo segno storico e politico.

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