Perché l’Ungheria spaventa l’Europa

  SE L’ITALIA delle lauree non ride, l’Ungheria piange a dirotto. La sua nuova Costituzione, il principale colpo di mano della “maggioranza introvabile” di Viktor Orbà¡n, porta in calce la firma del presidente Pà¡l Schmitt, dimesso dopo che gli è stato revocato il dottorato dalla facoltà  di educazione fisica: aveva copiato 197 pagine su 215 della sua tesi. Ora è una gara a frugare negli archivi per scovare reciproche false lauree. Oggi Orbà¡n proporrà  il suo candidato alla successione, i nomi che corrono sono quelli di Jà¡nos Ader, già  presidente del Parlamento, o di Jà¡zsef Szà¡jer, ligi parlamentari europei. Gà¡spà¡r Miklos Tamà¡s, autorevole professore di filosofia spedito anzitempo in pensione – a 62 anni, con altre migliaia, compresi 200 giudici, da una specie di epurazione governativa – si è augurato una Presidente donna, e tanto meglio se zingara e lesbica: e non scherzava. Ci sono paesi segnati da un vittimismo nazionale: la Serbia, per esempio. Ce ne sono altri attraversati da una quantità  di vittimismi, ciascuno dei quali ha qualche buona ragione. 

  SE L’ITALIA delle lauree non ride, l’Ungheria piange a dirotto. La sua nuova Costituzione, il principale colpo di mano della “maggioranza introvabile” di Viktor Orbà¡n, porta in calce la firma del presidente Pà¡l Schmitt, dimesso dopo che gli è stato revocato il dottorato dalla facoltà  di educazione fisica: aveva copiato 197 pagine su 215 della sua tesi. Ora è una gara a frugare negli archivi per scovare reciproche false lauree. Oggi Orbà¡n proporrà  il suo candidato alla successione, i nomi che corrono sono quelli di Jà¡nos Ader, già  presidente del Parlamento, o di Jà¡zsef Szà¡jer, ligi parlamentari europei. Gà¡spà¡r Miklos Tamà¡s, autorevole professore di filosofia spedito anzitempo in pensione – a 62 anni, con altre migliaia, compresi 200 giudici, da una specie di epurazione governativa – si è augurato una Presidente donna, e tanto meglio se zingara e lesbica: e non scherzava. Ci sono paesi segnati da un vittimismo nazionale: la Serbia, per esempio. Ce ne sono altri attraversati da una quantità  di vittimismi, ciascuno dei quali ha qualche buona ragione.  È il caso della Polonia, e del paese a lei più affine, mi pare, nonostante la lingua, l’Ungheria. Vi si sono accumulate le sopraffazioni come in certe ripide stratificazioni geologiche.

Strade e piazze cambiano nome tante volte, statue vengono abbattute e rimesse in auge.

La destra ungherese di oggi avverte, come già la Polonia di trent’anni fa, che l’Europa occidentale «non può capire». Si dichiara figlia della rivoluzione del 1956 contro la sinistra, compresa quella sinistra libertaria che alla rivoluzione del 1956 si ispirò. Apre la sua nuova Costituzione con parole di orgoglio nazionale: «Noi siamo fieri che il nostro re Santo Stefano abbia edificato lo Stato ungherese su solide fondamenta e abbia reso il nostro paese parte dell’Europa Cristiana mille anni fa. Siamo fieri dei nostri avi che si batterono per la vita, la libertà e l’indipendenza del nostro paese. Siamo fieri…». Si può andar fieri, naturalmente. Il confronto consola affabilmente: «L’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro». Non c’era molto di cui andar fieri, nell’Italia del 1945. L’Ungheria, che ha pagine nazionali così belle, perse nel giro di mesi del 1944 seicentomila suoi concittadini, ungheresi di origine ebraica: tanti quanti i morti italiani nella Prima Guerra, e la popolazione italiana del ’15 era più che doppia.

Oggi i cittadini ungheresi di origine ebraica sono centomila, e a Budapest vive la terza comunità europea per numero, tra i 70 e gli 80 mila. L’Ungheria del 1944 era occupata dai nazisti tedeschi, ma l’impegno delle Croci frecciate e della burocrazia ungherese nel piano di sterminio di Eichmann fu fanaticamente devoto. Ricevendo il premio Nobel, nella Svezia di Raoul Wallenberg, lo scrittore Imre Kértesz ricordò questa Ungheria feroce e servile.

Kertész vive a Berlino, ed è la bestia nera della destra ungherese. Un altro importante scrittore, l’ottantenne Akos Kértesz, premio Kossuth, dopo aver pronunciato giudizi durissimi sull’indisponibilità del paese a misurarsi col proprio passato ed essersi visto revocare la cittadinanza onoraria di Budapest, ha “scelto” un mese fa di andare a chiedere asilo a Montreal. È delicato proclamarsi orgogliosi di qualcosa senza ricordarsi di vergognarsi di qualcos’altro. Il4 aprile un deputato del partito fascista Jobbik, Zsolt Barath, ha risuscitato in Parlamento la famigerata accusa di omicidio rituale di una quattordicenne cristiana, mossa nel 1882a 15 ebrei del villaggio di Tiszaeszler. Era troppo, anche per il partito di governo. Lo scorso febbraio Orbán era andato al parlamento europeo a rispondere alle critiche. Aveva negato che gli intellettuali ebrei in Ungheria fossero preoccupati.

Pochi giorni fa c’è stata al castello di Buda una gran celebrazione del centenario della nascita di István Örkény (19121979), l’autore delle Novelle da un minuto. In una un giovane angosciato dice al rabbino: «Ho due grossi problemi». Ma che problemi vuoi avere, nel fiore degli anni, e così bello e forte, si meraviglia il rabbino. «La donna che amo è ebrea». «E allora? Anche tu sei ebreo, no?» «Questo è il secondo grosso problema».

A proposito dell’amara autoironia di Örkény, Péter Esterházy ne sottolinea la distanza dall’inclinazione ungherese all’aneddoto in cui ci si immagina sempre vincitori. Avevo appena sentito l’aneddoto, in realtà una normale notizia, sul primo ministro Orbán, che si chiama Viktor, e ha un fratello che si chiama Gyösö, che a sua volta in ungherese vuol dire Vittorio. Il padre che aveva caricato sulle spalle dei figli nomi così gravosamente anti-olimpici, e che, dice un simpatizzante biografo, Péter Kende, lisciava loro la schiena in modo più materiale, era un tecnico in una cava di pietre, e ora ne possiede un certo numero.

Orbán, avvocato, come pressoché tutti i fondatori del partito Fidesz – tranne un paio di economisti – ha una propensione per la forza, putiniana, per così dire, e un fastidio per la debolezza. Nell’accezione benevola lo si chiamerà decisionismo; la meno benevola teme lo slittamento dall’astratto al concreto, dalla debolezza ai deboli. Martedì 10 aprile, rispondendo alla richiesta di una commissione etica permanente sul razzismo, dopo il brutale discorso antisemita, Orbán ha ribadito il suo rispetto per tutte le minoranze. È un fatto che un giornalista a lui ostentatamente legato, già cofondatore di Fidesz, Zsolt Bayer, impiega regolarmente ripugnanti toni antisemiti. Del resto è convinzione diffusa che la madre di Orbán sia di origine rom, che sarebbe una buona notizia. Quanto alla documentata spregiudicatezza di Orbáne dei suoi negli affari, è un capitolo su cui il visitatore italiano tossicchierà imbarazzato.

Ogni volta che il visitatore sta per scandalizzarsi di fronte a qualche enormità della politica ungherese, deve ricordarsi dell’Italia e mordersi la lingua: che si tratti del debito pubblico o della stagnazione produttiva o delle bravate dei parlamentari da trivio. C’è quel solo momento a nostro favore, al palazzo presidenziale in cima al Castello. Il picchetto marziale esegue con tutte le regole il cambio della guardia, ma il palazzo è spigionato. Almeno al Quirinale, per ora, i titoli di studio sono regolari. In memoria dei ragazzi della via Pal, provo a interpellare i membri di un popoloso circolo dello skateboard. Rispondono all’unisono: «La politica? Shit!» Li esorto ad articolare di più, ma niente: «Shit!», e basta. Dev’essere un nuovo esperanto giovanile – l’esperanto ebbe una gran storia in Ungheria. Immagino che un visitatore ungherese interessato alla politica si sentirebbe rispondere così, in una scolaresca italiana: «Shit!» Anche le persone dell’opposizione rifiutano di chiamare «fascista» la politica di Orbán. «Nazionalpopulista», più appropriato, ma vago. Nel motivato allarme in Europa occidentale, ma anche nella sua sbrigativa semplificazione, ha giocato una confusione fra l’estrema destra del partito Jobbik, questa sì razzista, e la destra autoritaria di Fidesz. La confusione non è casuale, perché fra maggioranza e Jobbik c’è anche un gioco delle parti. Però il gioco delle parti è almeno bilanciato dalla rivalità, e il partito di Orbán, abituato a strumentalizzare – in patria e ancora di più all’estero – lo spauracchio di Jobbik, rischia di finire da apprendista stregone.

Nei sondaggi Fidesz è in caduta mentre i consensi a Jobbik crescono ripidamente. Il dato più allarmante è il suo successo crescente fra i giovani, e soprattutto fra i più istruiti. Qualcosa del genere, direte, succede anche in Francia, dove però l’adesione giovanile a Marine Le Pen è minore fra gli universitari. Soprattutto, in Francia – o in Germania, e nella stessa Italia – formazioni di sinistra più radicale o ecologiste hanno presa, mentre in Ungheria l’opposizione di sinistra è desolata. Non è un caso – anche questo noi italiani lo capiamo bene, era il nostro pane duro di ieri – che l’opposizione ungherese, capace tuttavia di buone mobilitazioni civili, faccia tanto affidamento sulle censure europee e le critiche dei media internazionali al regime di Orbán. I più avvertiti apprezzano i moniti europei, ma si tengono alla larga dai risvolti “greci”.

Per ora comunque al centro della “questione ungherese” sta il doppio tema della Costituzione e della democrazia. Esattamente: che cosa succede quando una limitazione all’arbitrio della maggioranza in democrazia, per esempio la necessità di una maggioranza dei due terzi per decisioni di rilievo maggiore, diventa essa stessa l’arbitrio. (1. continua)

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