La lotta di classe al contrario

Per uscire dalla crisi sappiamo cosa fare: ridurre il debito, tagliare la spesa pubblica, rendere più competitivi i lavoratori, aumentare il ruolo dei privati nell’economia. Sappiamo tutte queste cose, ma non ci è chiarissimo perché le sappiamo. Anche gli economisti più assertivi, tipo Francesco Giavazzi e Alberto Alesina sul Corriere della Sera, faticano a dimostrare che queste sono le ricette migliori. Bisogna fare così e basta, perché lo dicono gli economisti più autorevoli, quelli ascoltati dai mercati. Cioè loro.

Per uscire dalla crisi sappiamo cosa fare: ridurre il debito, tagliare la spesa pubblica, rendere più competitivi i lavoratori, aumentare il ruolo dei privati nell’economia. Sappiamo tutte queste cose, ma non ci è chiarissimo perché le sappiamo. Anche gli economisti più assertivi, tipo Francesco Giavazzi e Alberto Alesina sul Corriere della Sera, faticano a dimostrare che queste sono le ricette migliori. Bisogna fare così e basta, perché lo dicono gli economisti più autorevoli, quelli ascoltati dai mercati. Cioè loro.
LUCIANO GALLINO sostiene una spiegazione sorprendente nella sua semplicità: questo genere di misure non sono neutre e indiscutibilmente giuste, ma la traduzione in politica economica della “Lotta di classe dopo la lotta di classe”, come si intitola il nuovo libro del sociologo torinese pubblicato da Laterza (un’intervista a cura di un’altra sociologa, Paola Borgna). L’analisi di Gallino corrisponde al passo indietro che, in un museo, permette di vedere un quadro come un insieme invece che come somma di dettagli. La tesi è questa: nei primi 70 anni del Novecento la lotta di classe ha portato a una ridistribuzione verso il basso delle risorse: la costruzione dei sistemi di welfare ha protetto milioni di persone dalla povertà e dalle incertezze, la pressione dei sindacati ha ridotto la quantità di lavoro e ne ha migliorato la qualità, l’istruzione di massa ha permesso mobilità sociale. La classe dei lavoratori ha vinto la battaglia. Ma la guerra è continuata, è iniziato un “contromovimento” come lo chiamava Karl Polanyi. I numeri di Gallino sono difficili da confutare: tra il 1976 e il 2006 crolla la percentuale dei redditi da lavoro sul Pil, misura di quanta parte della ricchezza nazionale finisce nelle tasche dei lavoratori. Tra il 1976 e il 2006, nei 15 Paesi più ricchi dell’area Ocse, si passa dal 68 al 58 per cento. In Italia i redditi da lavoro scendono addirittura al 53 per cento. Questo significa, ricorda Gallino, che i lavoratori dipendenti hanno perso 240 miliardi di euro all’anno. Ma pagano comunque moltissime tasse e tuttora in Italia l’aliquota più bassa dell’Irpef (23 per cento) è maggiore di quella sui proventi finanziari, passata nel 2012 dal 12,5 al 20 per cento. Non è colpa della globalizzazione, sostiene Gallino. È la lotta di classe. Perché mentre i lavoratori dipendenti diventavano più poveri, altri si arricchivano. Una superclass globale, ma fortemente radicata anche all’interno delle singole nazioni, si appropriava di quella ricchezza sottratta ai lavoratori. La teoria (neo) liberista, che secondo Gallino è una delle espressioni più compiute della lotta di classe, sostiene che se il Pil cresce tutti ci guadagnano, che rimuovere gli ostacoli alla crescita, rendere il lavoro più flessibile e i salari più competitivi, alla fine è nell’interesse di tutti. Il filosofo John Rawls affermava nei suoi principi di giustizia che una disuguaglianza è accettabile soltanto se migliora la condizione anche di chi ha meno. E Gallino dimostra che all’arricchimento di pochi, soprattutto nella finanza, ha corrisposto un impoverimento della base della piramide sociale, con la perdita della capacità di essere una classe “per se” (soggetto attivo, consapevole di avere interesse comuni).
IL LIBRO DI GALLINO costringe a una perenne ginnastica mentale, perché a ognuno delle dimostrazioni della violenza della nuova lotta di classe al lettore scatta subito la risposta mainstream. I nostri lavori sono poco produttivi? Dobbiamo accettare meno diritti e più flessibilità, o la disoccupazione. Sbagliato, risponde Gallino: con un minimo di coscienza dell’essere classe anche i sindacati dovrebbero porsi il problema di far aumentare i salari dei lavoratori cinesi e indiani, denunciando le condizioni di sfruttamento, invece che rassegnarsi a veder scendere quelli italiani o americani.
C’è un punto di fragilità nel libro di Gallino: l’ascesa della finanza, il trionfo del capitalismo a debito e la conseguente crisi di finanza pubblica non è soltanto un prodotto di questa lotta di classe. Ma anche, per dirla sempre con termini marxisti, l’epilogo di una crisi di sovrapproduzione: i poveracci americani ricorrevano a carte di credito e mutui subprime per avere uno stile di vita che non potevano permettersi e mantenere artificiosamente alto il livello dei consumi. In Europa le finanze allegre della Grecia hanno permesso ai greci di continuare a comprare prodotti tedeschi, e così via. La bolla della finanza, insomma, non ha contagiato l’economia reale, come sostiene Gallino, ma si fonda sulle sue debolezze. Dopo aver letto il libro di Gallino, quando si vedono Mario Monti ed Elsa Fornero accampare spiegazioni scivolose sulla necessità di ridurre le tutele al lavoro, viene da parafrasare Bill Clinton: “É la lotta di classe, stupido”.
La lotta di classe dopo la lotta di classe, di Gallino, Borgna; Laterza  213 PAGG., 12 EURO

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