DIAZ Mauro Palma: «Al di là dell’esito dei processi la polizia non può più tacere»
«Il film di Vicari lascia volutamente aperte alcune domande. È uno spazio civile da cui può nascere una riflessione collettiva contro la rimozione operata da politica e cultura»
DIAZ Mauro Palma: «Al di là dell’esito dei processi la polizia non può più tacere»
«Il film di Vicari lascia volutamente aperte alcune domande. È uno spazio civile da cui può nascere una riflessione collettiva contro la rimozione operata da politica e cultura»
A Mauro Palma – ex presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura – «Diaz», il film di Daniele Vicari, è piaciuto. Anche perché, dice, «lascia volutamente aperti alcuni interrogativi fondamentali». Ed è con le domande più che con le risposte – sembra dire Palma – che si combatte quella cultura dell’«opacità» che ancora persiste nei nostri corpi di polizia.
Dai tempi del «professor De Tormentis» che negli anni ’70 seviziava le Br ad oggi cosa è cambiato nell’uso della tortura?
Ricordiamo che a Genova sono stati coinvolti quasi tutti i corpi delle forze dell’ordine: polizia, carabinieri, polizia penitenziaria. E anche in casi più recenti, e individuali, come la morte di Stefano Cucchi sono coinvolte più forze dell’ordine. Allora la domanda è: cosa accomuna tutti queste strutture che pure hanno formazione e compiti totalmente diversi? A fronte di un indubitabile percorso pratico soggettivo – in quanto l’inserimento nei corpi di sicurezza non ha più una radice di tipo ideologico come poteva essere negli anni ’70 ma piuttosto di tipo lavorativo – c’è però un elemento che è rimasto immutato: l’opacità. Può sembrare un paradosso: Genova è stata una delle esperienze più raccontata mediaticamente eppure rivela l’ossimoro di una violenza trasparente e al contempo fortemente opaca. Il film Diaz credo che volutamente lascia irrisolti due interrogativi: come sia stata possibile quella violenza sistematica agita da differenti corpi di polizia, e quali sono state le responsabilità politiche a monte (nel consentirlo) e a valle (nell’opacità della cultura degli organismi di polizia). Questa seconda domanda soprattutto interpella non solo il Parlamento, che non ha mai voluto indagare, ma anche tutto il mondo della cultura, che non si è mai soffermato sugli interrogativi profondi che poneva Genova.
Eppure da allora altre volte abbiamo assistito a quel tipo di «gestione della piazza» e registrato casi di tortura dentro e fuori le caserme e le prigioni. Conta di più, in questo, l’interruzione del percorso di democratizzazione interna o l’influenza esterna della politica?
Credo che il problema sia più esterno. Sicuramente a Genova i vari reparti agiscono come un branco che individua il nemico nei manifestanti, con un deficit di formazione probabilmente mutuata più dalla gestione degli stadi che delle piazze. Questo è un problema interno e non si può parlare di mele marce. Ma se all’esterno ci fosse la consapevolezza della gravità del fenomeno, se non si tendesse a depistare e a negare, si potrebbe creare una nuova cultura a partire dagli errori.E’ questa l’«opacità»?
C’è opacità innanzitutto nella mancanza degli elementi identificativi sulla divisa degli agenti. Ma a Genova si è andati perfino sul terreno dell’illegalità, pur di depistare e proteggere i responsabili. Si è negato tutto, evitando così che l’evento si trasformasse in elemento di riflessione collettiva.
Dopo Genova ci sono state promozioni a livello apicale e nessuna rimozione dai compiti di ordine pubblico degli agenti.
Attenzione: se parlassimo di promozioni che scattano automaticamente allora potrebbero ben esistere nel caso non si sia ancora arrivati all’accertamento definitivo. Ma in tutti questi casi sono state promozioni discrezionali, sono stati scelti proprio coloro che nel frattempo erano sotto indagine. S’è mandato così un messaggio fortissimo di impunità. Addirittura ci sono persone con responsabilità accertate in sede processuale che svolgono ancora la stessa funzione.
Come nel processo per maltrattamento alla «squadretta» del carcere di Asti: nella sentenza i giudici hanno scritto che in mancanza del reato di tortura l’episodio doveva essere derubricato…
Sì, però nella sentenza i fatti sono stati descritti esattamente. E allora a me sembrerebbe che il primo provvedimento da prendere è quantomeno il trasferimento degli agenti negli uffici in modo da sottrarli alla responsabilità diretta dei detenuti. E invece così non è.
Se si introducesse il reato di tortura, cosa cambierebbe?
La tortura prevede una pena cospicua e tempi più lunghi di prescrizione. Però occorre anche un’inversione culturale: se dopo il 17 marzo 2001 a Napoli ci fosse stata una riflessione sulla gestione della piazza e sulle violenze, forse a Genova sarebbe andata diversamente.
Invece si demonizza l’avversario.
Ecco, questo è un punto estremamente negativo che è entrato nella formazione. La mancanza di cultura, di idealità complessiva, fa sì che ci si rifugi nelle identità deboli e che si percepisca chi ne è fuori come un aggressore. A Genova la trasversalità e l’ampiezza del movimento hanno contribuito a farlo percepire come un nemico ancora più pericoloso. Se ad essere sgomberata fosse stata una sede antagonista probabilmente le cose sarebbero andate diversamente. Ecco l’influenza della politica.
Lei che spesso forma funzionari di polizia penitenziaria, vede in questi corpi una certa ideologica «destrorsa»?
Nell’accezione tradizionale, no. Il problema però è che ci sono nuove categorie della cultura di destra, come quella di chi in Parlamento non vuole indagare sui fatti ma coprirli, di chi non vuole il codice identificativo o il reato di tortura pensando così di proteggere le forze dell’ordine. Ma non le sta proteggendo, sta creando un alone di opacità che facilita comportamenti aggressivi e ghettizzanti. I veri anticorpi sono proprio le finestre aperte.
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