Oggi un convegno a Roma inaugura le celebrazioni per ricordare l’autore di “Come un’allegoria”, che nasceva a Livorno nel 1912 per esordire nel 1932. Solitario ed estraneo ai gruppi, costruì un lessico proprio tratto dal quotidiano Amato da Calvino, fu paragonato a classici come Tasso e Leopardi
Oggi un convegno a Roma inaugura le celebrazioni per ricordare l’autore di “Come un’allegoria”, che nasceva a Livorno nel 1912 per esordire nel 1932. Solitario ed estraneo ai gruppi, costruì un lessico proprio tratto dal quotidiano Amato da Calvino, fu paragonato a classici come Tasso e Leopardi
«L’ importante è risparmiare al massimo il rumore delle parole», diceva Giorgio Caproni stringendo in una battuta il senso profondo del suo far poesia. «Non mi piacciono la logorreaei versi lunghi», aggiungeva, «mi piace essere incisivo». Nella parola risiede la linfa della poesia, ma la parola può anche essere un limite, o addirittura una mistificazione, spiegava ancora Caproni citando Fernando Pessoa. E per assurdo, concludeva, l’ideale sarebbe scrivere una poesia composta da una sola parola.
È un ideale al quale si avvicinò, ma, per fortuna di tutti i suoi lettori, non realizzò. Giorgio Caproni è nato cento anni fa a Livorno, nel 1912, e ottant’anni fa, nel 1932, esordiva come poeta, avviando i versi che poi avrebbe raccolto nel 1935 in Come un’allegoria. Il 2012 dunque è un anno caproniano. Oggi a Roma all’Istituto dell’Enciclopedia Italiana parlano del poeta livornese, fra gli altri, Biancamaria Frabotta, Tullio De Mauro, Pietro Citati, Luigi Surdich, Adele Dei e Antonio Debenedetti. Un’altra giornata di studi è prevista per giovedì 19 aprile presso la romana Biblioteca comunale di Via Cardano, dove sono depositati parte dei libri di Caproni. Incontri seguiranno a Bologna, Genova, Parigi e alla Fiera del libro di Torino.
Inoltre l’editore Aragno pubblicherà le prose critiche di Caproni. Dovranno però trascorrere ancora due decenni dall’esordio del 1932 prima che la poesia di Caproni ricevesse il riconoscimento che fino ad allora era mancato. Fu grazie a Pier Paolo Pasolini e a un suo saggio del 1952 (un altro anniversario tondo), comparso su Paragone e poi raccolto in Passione e ideologia, che Caproni venne risarcito di una certa disattenzione critica.
Quello stesso anno Caproni vinse il Viareggio con la raccolta Stanze della funicolare che a Pasolini ricordava certi moduli classici, Torquato Tasso, per esempio, il Leopardi del Consalvo e i sonetti di Michelangelo.
Scontava, il poeta livornese, la scarsa propensione a schierarsi in cordate e una certa attitudine a costruire un lessico proprio e una direttrice di marcia che in quello scorcio di anni lo tenne distante sia dagli ermetici, sia dai Lirici nuovi radunati nel 1943 da Luciano Anceschi.
Questa disponibilità solitaria, Caproni l’avrebbe assecondata per tutta la vita. E l’avrebbe condensata persino nel portamento, lui molto alto, da un certo momento in poi magrissimo e con il volto scavato. Anche quando i suoi lettori e i suoi critici crebbero di molto, finalmente accordandogli quel ruolo di primo piano nella poesia del secondo Novecento che ora nessuno gli nega, Caproni si mantenne nelle retrovie rispetto alla prima fila letteraria e mondana. La sua poesia, ha scritto Geno Pampaloni, «è cresciuta su se stessa per forza endogena, secondo un proprio alfabeto».
È sempre la parola il centro delle sue attenzioni. Una parola che, ha più volte raccontato, era nata per lui come accompagnamento della forma musicale.
Caproni aveva studiato violino e composizione al conservatorio e fra le esercitazioni che gli venivano richieste figurava quella di mettere le parole a certi corali. In un primo tempo aveva adattato testi poetici della tradizione classica, Torquato Tasso, per esempio. Poi cominciò a infilare sotto quella musica versi propri.
Da allora il lavoro di ripulitura di ogni accessorio intorno alla parola sarebbe proseguito senza pause. Un lavoro di lima costante che lo avrebbe seguito nei decenni successivi alle poesie di esordio. Poeta di pochi, profondi, nuclei tematici, ha detto di lui Giovanni Raboni: il tema della città, il tema della madre, il tema del viaggio. Poeta di parole tratte dal quotidiano – il bicchiere, l’incerato a quadretti, le latterie, le osterie – , raccolte da un glossario minuto e povero. Eppure, aggiungeva Italo Calvino, Caproniè poeta che sapeva spingere quelle parole al confine del nullae del buio. Poeta colloquiale, cantabile, poeta “senza esclamativi” (è il titolo di una sua poesia). Scrive nel 1932: «Dopo la pioggia la terra / è un frutto appena sbucciato. / Il fiato del fieno bagnato / è più acre – ma ride il sole / bianco sui prati di marzo / a una fanciulla che apre la finestra». Scrive nel 1978: «Io zitto / a respirare il sole / erboso del mattino – il verde / mattino delle erbose / trotterellanti parole». Poeta, in ogni caso, letterariamente padrone dei propri strumenti e capace di dare forma rotonda, compiuta ai versi.
Basta osservare l’uso della rima, della quale ammirava la funzione costruttiva, come fosse un accordo musicale: «È un modo per far consonare due idee e per farne scattare un’altra, esattamente come faceva Dante».
«Non lo sa dire nessuno che cosa sia un poeta», disse una volta. «Per quanto mi riguarda è la ricerca di me stesso, è vedere chi sono e, attraverso me, gli altri».
Caproni paragonava il poeta al minatore, che «dalla superficie dell’autobiografia, scava, scava fino a trovare un fondo nel proprio io che è comune a tutti gli altri».
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