Nella storia della economia politica pochi argomenti come quello dell’occupazione hanno generato teorie “volgari”, come direbbe Marx, che sostengono che gli interessi dei lavoratori sono sempre subordinati a qualche legge economica.
Tra i vari esempi, si possono ricordare le tesi alcuni autori mercantilisti del XVII secolo, che raccomandavano di mantenere i salari al livello della sussistenza, perché altrimenti i lavoratori avrebbero utilizzato il sovrappiù per darsi all’ozio e alle bevute in osteria.
Nella storia della economia politica pochi argomenti come quello dell’occupazione hanno generato teorie “volgari”, come direbbe Marx, che sostengono che gli interessi dei lavoratori sono sempre subordinati a qualche legge economica.
Tra i vari esempi, si possono ricordare le tesi alcuni autori mercantilisti del XVII secolo, che raccomandavano di mantenere i salari al livello della sussistenza, perché altrimenti i lavoratori avrebbero utilizzato il sovrappiù per darsi all’ozio e alle bevute in osteria.
Per Malthus il livello dei salari di sussistenza era il risultato di una legge “naturale”: la legge della popolazione, secondo cui questa tenderebbe inevitabilmente a crescere ad un tasso superiore a quello della disponibilità di alimenti. Di conseguenza i lavoratori sarebbero condannati, senza speranza, alla fame. Per la stessa ragione furono aspramente criticate le poor laws, che prevedevano, nell’Inghilterra dell’epoca, sussidi ai disoccupati.
Fu poi la volta dell’uso della teoria del fondo-salari in funzione anti-sindacale. Questa teoria assumeva che in ciascun periodo e in ciascun paese vi fosse una quantità limitata di beni salario da distribuire ai lavoratori. Ogni tentativo di aumentare il salario reale dei lavoratori sindacalizzati avrebbe avuto la conseguenza di far diminuire l’occupazione o di peggiorare le condizioni dei lavoratori non protetti (non vi ricorda argomentazioni ripetute anche ai giorni nostri?).
La teoria neoclassica, infine, considera il salario come un prezzo determinato dalle forze della domanda e dell’offerta nel mercato del lavoro. Il tentativo di alzare questo prezzo con l’azione sindacale o la legislazione, imponendo ad esempio un salario minimo più alto di quello che rende uguali la domanda e l’offerta, creerebbe disoccupazione.
La conclusione è che se il mercato del lavoro è lasciato libero di funzionare con sufficiente flessibilità si raggiunge un equilibrio di piena occupazione. La versione più moderna di questa teoria definisce un tasso di disoccupazione naturale (NAIRU): in ogni momento, nonostante la tendenza naturale alla piena occupazione, si ha un certo numero di disoccupati involontari, causato dalle frizioni del mercato del lavoro, ad esempio il ritardo nel passaggio da un’occupazione all’altra e, beninteso, dalle cattive condizioni istituzionali (sostanzialmente, di nuovo, il potere dei sindacati e le regolamentazioni eccessive). CONTINUA | PAGINA15
Per l’economia ortodossa, in linea di principio, i lavoratori non hanno diritti, se non quelli di venditori di una merce come le altre.
In realtà, come ha ricordato Giorgio Lunghini in un recente articolo sul Manifesto, Keynes ha mostrato come un’economia capitalistica non tende necessariamente ad un equilibrio di piena occupazione perché le condizioni della domanda aggregata generano un equilibrio in cui persiste disoccupazione involontaria.
Un’altra causa di disoccupazione, secondo gli economisti classici, è da ricercarsi nella struttura e nella quantità del capitale esistente, che possono essere tali da non consentire la piena occupazione o nel modo di funzionare di un’economia basata sulla valorizzazione del capitale, che crea l’ “esercito industriale di riserva” (Marx).
Le politiche economiche oggi imperanti in Italia si concentrano esclusivamente sulla flessibilità del mercato del lavoro per limitare il “tasso naturale” di disoccupazione, semplicemente ignorando queste altre cause di disoccupazione e considerando la prospettiva keynesiana dell’insufficienza della domanda aggregata al massimo un episodio di breve periodo legato alla congiuntura economica.
Tuttavia anche i nostri professori al governo da una parte riconoscono che il problema dei livelli attuali della disoccupazione è il risultato della crisi economica (l’insufficienza della domanda, sia pure considerata come problema esclusivamente di breve periodo), ma dall’altra agiscono esclusivamente sulle supposte ragioni di lungo periodo della rigidità del mercato del lavoro, mentre nel breve periodo le politiche di austerity necessariamente aggravano il problema. Bisognerebbe ammettere, anche rimanendo all’interno dell’ortodossia, che dosi massicce di flessibilità non possono avere alcun effetto sul livello della disoccupazione nella situazione di crisi attuale. E’ un po’ come tornare, in medicina, al salasso come cura buona per tutte le malattie. Ma come si sa ciò che conta, nell’immaginario dei decision maker, è la virtuale fiducia dei mercati finanziari, piuttosto che la concreta e oggettiva situazione reale.
Se bastasse la famosa flessibilità per avere una dinamica positiva nella creazione dei posti di lavoro la proliferazione del precariato avrebbe dovuto risolvere il problema da un pezzo. I giovani sono sottoposti ad una flessibilità intollerabile, e tuttavia, secondo i dati ISTAT, il tasso di disoccupazione giovanile è oggi del 31,9%, contro un tasso di disoccupazione medio del 9,3%.
Alcune statistiche, cui fa riferimento il senatore Pietro Ichino in una recente serie di articoli pubblicati dal Corriere della sera, mostrano che l’Italia è un paese con una bassa creazione di nuovi posti di lavoro e al tempo stesso con una bassa incidenza di licenziamenti prima del termine naturale. Ichino auspica un mercato del lavoro più dinamico. Tuttavia ai fini del livello di disoccupazione ciò che conta non è il numero assoluto dei disoccupati riassorbiti da una parte e di lavoratori licenziati dall’altra, ma il loro rapporto relativo. Evidentemente, se è maggiore il numero dei lavoratori licenziati la disoccupazione cresce, se è maggiore il numero di posti creati la disoccupazione diminuisce. In secondo luogo non si vede perché la causa della relazione tra le due variabili debba essere individuata nella supposta difficoltà di licenziare. Può essere valida anche la relazione di causalità contraria: la scarsa dinamica nella creazione di posti di lavoro, risultato dei limiti strutturali dell’economia italiana, può aver fatto sedimentare, come reazione, una minore flessibilità all’uscita e allora occorrerebbe agire sulla insufficiente dinamica piuttosto che sui licenziamenti.
Infine, bisogna riflettere sul fatto che l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori si applica a tutto il territorio nazionale, ma il tasso di disoccupazione è del 6,7% al nord, del 9,2% al centro e del 14,9% nel mezzogiorno, con tassi di inattività rispettivamente del 29,9%, 33,3% e 48,3%. A parità di condizioni abbiamo situazioni estremamente differenti. Il problema, evidentemente, ha profonde cause strutturali ed è una pia illusione, o peggio, presentare la riforma Monti-Fornero come un contributo importante alla sua soluzione e non per quello che avrebbe invece dovuto essere, cioè una riforma che eliminasse le forme insostenibili di precariato.
Tanto più che a parole si afferma di ispirarsi al modello danese della flexsecurity. Ma un tale modello richiede una dose molto alta di intervento e di spesa pubblica. Come si possa raggiungere tale livello se l’obiettivo è il taglio generalizzato del debito pubblico non è neanche lontanamente immaginabile. Basti pensare che secondo l’OCSE in Italia la spesa pubblica per le politiche del lavoro è stata dello 1,83% (di cui lo 0,44% per le politiche attive, cioè non di mero supporto del reddito) del prodotto interno lordo nel 2009. Molto lontana non solo dal livello del 3,35% raggiunto dalla mitica Danimarca (1,62% per le politiche attive), ma anche da molti paesi europei, dove la quota si attesta spesso intorno al 2,5% (l’1% per le politiche attive). In queste condizioni si può facilmente prevedere una situazione poco “flex” e con una magra “security”.
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