ELIO PAGLIARANI Il poeta è scomparso ieri a 84 anni. Nei suoi versi, dalla «Ragazza Carla» alla «Ballata di Rudi», montaggi stranianti, e al tempo stesso limpidi, sul filo di una esacerbata moralità e di una tenace passione
«Quanto di morte noi circonda e quanto tocca mutarne in vita per esistere è diamante sul vetro, svolgimento concreto d’uomo, in storia che resiste solo vivo scarnendosi al suo tempo »
ELIO PAGLIARANI Il poeta è scomparso ieri a 84 anni. Nei suoi versi, dalla «Ragazza Carla» alla «Ballata di Rudi», montaggi stranianti, e al tempo stesso limpidi, sul filo di una esacerbata moralità e di una tenace passione
«Quanto di morte noi circonda e quanto tocca mutarne in vita per esistere è diamante sul vetro, svolgimento concreto d’uomo, in storia che resiste solo vivo scarnendosi al suo tempo »
Era superstizioso, Elio. I suoi amici lo sapevano bene, ed evitavano di sfidare la sua collera. C’è anche chi fra loro – come a ironicamente sancire un discepolato «segreto» – ha mutuato una sua superstizione a rovescio: impostando la sua opera proprio su quel numero, otto, che Elio chissà perché evitava come la morte. Stando così le cose, appunto della morte non si poteva parlare in sua presenza. Neppure io mi azzardavo, scrivendo della sua opera. Omettendo così un tema, una sostanza psichica, che a rileggerla in questa chiave – come non posso non fare oggi, purtroppo – vi appare centrale.
La poesia straordinaria che in Lezione di fisica (1964) s’indirizza ad Alfredo Giuliani col titolo Oggetti e argomenti per una disperazione attacca così: «Che sappiamo noi oggi della morte / nostra, privata, poeta?». “Morte”, qui come nel resto dell’opera di Pagliarani, è parola che lega campi semantici assai distanti fra loro. La «morte privata» è quella individuale, cui da «adolescenti» si crede di non essere soggetti: e che all’apparire nella mente segna il passaggio della linea d’ombra. Da quel momento in poi si tende al proprio fine, aveva detto Gadda: al termine comprensivo e definitivo (che ci comprende e ci definisce: esistenzialisticamente, certo). Col passare dei versi però, interrotto di continuo da raffiche di discorso altro (che fanno del libro del ’64, specie con la sua extension di quattro anni dopo Fecaloro, il più audacemente informale di Elio nonché – malgrado in precedenza venisse considerato in quel novero quasi un “moderato” – di gran lunga il più scatenatamente sperimentale fra quelli dei cinque Novissimi del ’61), il monologo considera “morte” da un punto di vista collettivo, filogenetico: «ci avevano detto che gli uomini, non un uomo, sopravvivono / che a noi tocca la stessa immortalità come alle belve / nell’amore che genera».
Ecco, l’amore: che nella poesia di Elio – come da millenaria tradizione – alla morte sempre si associa. Ma in un’accezione decisamente diversa – materialistica, fisica appunto – da quella della tradizione. Si tratta infatti dell’«amore che genera», cioè dell’accoppiamento sessuale: che, nella sua pulsione irresistibile di «belve», alla morte si contrappone e, freudianamente, la sussume. Nella poesia che dà il titolo al libro, all’evocazione della guerra nucleare di un dottor Stranamore del tempo («160 milioni di decessi in casa sua / non sarebbero la fine della civiltà (…) va da sé che esiste, egli scrive, un ulteriore problema / quello cioè se i sopravvissuti avranno buone ragioni / per invidiare i morti») segue subito dopo, col solito montaggio straniante (ma psichicamente chiarissimo), un inciso di pura «gioia» sessuale: «vino rosso capriole con lancio di cuscini / nella mia stanza».
Amore, in questo senso, è pure quel che ispira poesia: «tra il trentanove e il quaranta», «lo stesso anno / che conobbi gli stimoli del sesso», racconta Elio sempre in Oggetti e argomenti, si trovò a tradurre – «male» – un sonetto di Shakespeare: «il mio verso vivrà finche gli uomini / sapranno respirare e tu con quello». La sopravvivenza, prima evocata sul piano biologico, passa ora a quello storico: all’eredità «non genetica» della parola poetica per i posteri. Ma si tratta di un’illusione, la più crudele forse. Perché chi scrive «non si esalta / più delle avventure dello spirito»: «da tempo ciò che brucia / mi devasta soltanto», e non serve certo «a sublimare le mie sconfitte». Devastante chiusura del cerchio: se il tragico moderno (quello all’ombra della minaccia nucleare, per esempio) «trae una morale / di morte universale», non può provvedere – a differenza di quello antico – alcuna catarsi: non serve cioè «a consolarci della nostra», di morte: quella «privata».
Racconta Franco Cordelli che a diciott’anni si trovò alla libreria Einaudi a una presentazione dei Novissimi, forse proprio quella dell’antologia curata da Giuliani. C’era maretta. Il pubblico si divideva fra esaltati fautori («In ogni città d’Italia c’è un giovane disposto a morire per Sanguineti», recitava in quegli anni – lo si creda o meno – uno slogan di Feltrinelli) e altrettanto esagitati avversatori. Il frastuono metteva a tacere gli oratori. Allora si alzò Elio, si mise davanti a un cartello con stampata proprio Oggetti e argomenti per una disperazione, prese a leggerla a voce altissima. E tutti tacquero. Gli ultimi versi suonavano: «Ma se avessi soltanto bestemmiato / allora Brecht ai vostri figli ha già lasciato detto / perdonateci a noi per il nostro tempo». Era quello un tempo in cui non si poteva non bestemmiare: dicendo a voce alta verità durissime che altri tempi, invece, preferiscono nascondersi.
L’episodio inscena tanti caratteri tipici di Elio. Dall’esacerbata moralità che propelleva i suoi slanci allo stoicismo quasi brutale con cui affrontava l’esistenza; dalla passione pedagogica che – a differenza del maestro avverso Pasolini – non disgiungeva l’obliquità dell’assunto dalla veemenza del gesto («Colpisci, vita ferro città pedagogia», si legge in un inciso della Ragazza Carla), sino all’attitudine teatrale di letture pubbliche – maturata negli anni ’50 alla mitobiografica trattoria milanese di via Borgospesso: con Amodio, Fachinelli, Bosio e gli altri – con cui Elio tempestava in quei roaring Sixties, incrocio quasi di Majakovskij e Jimi Hendrix (c’è uno scampolo video di quegli anni, con lui in occhiali scuri, che fa quasi spavento), ad anticipare voghe tanto più recenti e meno squassanti. E che tante volte in seguito, dimidiato ma sempre arcipossente, ci ha vulnerato live: ogni volta accompagnandosi con la mano, ha scritto il suo lettore più fedele Walter Pedullà, come il «direttore d’orchestra» di se stesso.
Morte è poi quella comune del nostro vivere sociale e del lavoro. Nei versi limpidissimi che sigillano La ragazza Carla, il poemetto decisivo pubblicato nel ’60 (ma ideato per un film neorealista, ha raccontato Elio, già nel ’47-48), è detto citando Cavalcanti: «Quanto di morte noi circonda e quanto / tocca mutarne in vita per esistere / è diamante sul vetro, svolgimento / concreto d’uomo in storia che resiste». Morte in vita, senz’altro, quella delle tante ragazze Carle asservite dal capitale che, aveva raccontato Fachinelli, «il sabato si prendono un sonnifero, opportunamente dosato, che le faccia dormire fino al lunedì». Guardiamo il cielo, Carla Dondi, in storia che resiste – ed ecco risuonare i più stoici, i più umani, i più morali versi di Pagliarani: «È nostro questo cielo d’acciaio / che non finge Eden e non concede smarrimenti, / è nostro ed è morale il cielo / che non promette scampo dalla terra, / proprio perché sulla terra non c’è / scampo da noi nella vita». Per mutare in vita questa morte, ancora una volta, solo una è la strada: «non c’è risoluzione nel conflitto / storia esistenza fuori dell’amare / altri, anche se amore importi amare / lacrime (…)».
In Oggetti e argomenti per una disperazione c’è pure questo inciso: «anch’io mi sono sentito in gran ritmo naturale / sopra una donna e ci guardava un mare / come avessimo avuto un senso, o guardavamo un mare / come avesse avuto un senso». Ecco l’ultima accezione – archetipica e antropologica – della morte: che così si congiunge alla vita, al suo atto germinale. Nella Ballata di Rudi (l’altro grande poemetto, epico e corale, pubblicato solo nel ’95 ma iniziato in quei primi’60: in un’Italia che cresceva e si perdeva nella «società del benessere») ossessiva presenza è quella del mare, appunto. Quell’Adriatico del quale Elio era originario, quei «braccianti del mare» al lavoro come in una danza ritmata. Ecco, quell’umano lavoro si basa sulla presunzione, o sulla superstizione, che (con eco appunto di quell’inciso da Lezione di fisica) «non ha senso pensare / che s’appassisca il mare». Che si esaurisca cioè la forza vitale – «privata» e collettiva – che ci tiene al mondo. Nelle varie redazioni della Ballata il mare appassito, di volta in volta, ha senso e non ha senso (come del resto la nostra vita – la vita nel suo complesso). Ma nella clausola ultimissima, con verso gradinato che si spinge sino all’estremo del paginabile, così Elio concludeva: «Ma dobbiamo continuare come se non avesse senso pensare che s’appassisca il mare».
È quello che ci sforziamo di fare, Elio: come hai fatto tu sino alla fine. Anche se come te in fondo lo sappiamo bene, che così non è.
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La sua autobiografia in un «promemoria»
Dopo una lotta inconsapevole forse, ma strenua e prolungata, contro la morte, Elio Pagliarani se n’è andato nel pomeriggio di ieri. Era nato a Viserba, una frazione di Rimini, il 25 maggio 1927. Dopo la laurea in scienze politiche a Padova, si trasferì alla fine a Milano, lavorando nella scuola e collaborando a giornali e riviste. Da quegli anni prende avvio la nota autobiografica all’interno del suo sito eliopagliarani.it: «Incominciai “La ragazza Carla” a Milano fra settembre e ottobre del ’54, erano da poco iniziate le scuole, non ricordo se ero ancora nel vecchio “Istituto Leonida”, una scuola media privata in viale Umbria dove avevo cominciato a insegnare nel ’51, o se era un’altra nuova in via Commenda». Risale al ’54 la prima raccolta, «Cronache e altre poesie» mentre «La ragazza Carla» sarà pubblicato per intero nel 1960 sul «Menabò». Incluso con Balestrini, Giuliani, Porta e Sanguineti nella antologia «I novissimi», Pagliarani si è trasferito a Roma negli anni ’60, collaboratore costante delle più importanti riviste del secondo Novecento, da «Officina» a «Quindici» al «Verri». Il suo ultimo libro, l’autobiografico «Pro-memoria a Liarosa», è uscito l’anno scorso per Marsilio.
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