Gli editori che amavano i talenti

Rosset e gli altri pubblicavano in perdita Burroughs, la Duras e Bowles

Rosset e gli altri pubblicavano in perdita Burroughs, la Duras e Bowles

Alta conversazione fra Anna Ottani Cavina e Marc Fumaroli; a proposito del librone di lui Parigi-New York e ritorno (Adelphi), alla romana Villa Medici. Tristi considerazioni sulla condizione attuale di musei, mercati, trasformazioni in peggio, pubblicità esageratamente invasiva. Addirittura considerando l’afflusso turistico, e le relative conseguenze: aumento delle prospettive culturali, o di un commercio dei ninnoli? E dubbi sulle richieste imperative o infantili di trustees americani, accompagnate da cospicui esborsi sponsorizzanti; o piuttosto, la «patrimonializzazione» dei nostri beni culturali e ministeriali, continuamente alle prese con tagli di bilanci?
Torna spontaneamente in mente qualche esempio concreto. A San Paolo del Brasile, un gigantesco mostro «brutalista» e cementizio, nel contesto di un’avenida trafficatissima, deve ospitare una quantità di donazioni e lasciti generalmente di ambasciatori facoltosi, che prediligevano uno squisito Settecento di nèi e cicisbei, salotto o boudoir. Donde la necessità di organizzare una serie di salottini con sofà, centrini capitonné, abat-jours. In un contesto di cementi armati, i quadretti non ci stanno. Si perdono…
Ancora, anni fa, il MoMa neworkese stabilì di eliminare tutte le cornici più o meno «d’autore», anche se facevano parte del dipinto stesso. E invece il Metropolitan concittadino decise di conservarle tutte, soprattutto se erano state ordinate dallo stesso pittore.
A quel tempo, il Museo Van Gogh di Amsterdam organizzò una mostra di cornici d’autore: volute e firmate dagli artisti come complemento necessario del quadro. Si andava così dai fastosissimi bavaresi e austriaci della Belle Époque ai più rozzi preraffaelliti inglesi, o a taluni olandesi, con la fissazione artigianale e manuale di fare i falegnametti in casa, con risultati evidenti.
Un’altra notizia parve scivolar via casualmente. Nella Francia del Terrore, il grande pittore David stabilì di aprire il Louvre per due giorni a settimana al pubblico, e ben tre agli artisti. Ma tutti codesti artisti, da chi mai saranno autenticati? (Torna in mente La Bohème: «Chi son, chi sono? Sono un poeta. E cosa faccio? Scrivo. E come vivo? Vivo!»).
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Per anni e decenni, specialmente alla Scala, «danza americana» significava George Balanchine, che ogni anno rimontava con l’eccellente corpo locale di ballo i suoi migliori successi americani su musiche soprattutto di Ciajkovskij ma anche di Hindemith, Bach, Chabrier. E talvolta arrivava il suo New York City Ballet, con un «Lago dei cigni» o l’espressionista Gabbia di Robbins, su un Concerto di Stravinskij. Dalla semisconosciuta New York giungevano frammentarie notizie: come saranno sati Rodeo, El Salon Mexico, Appalachian Spring, Prairie, Filling Station, Billy the Kid? (E magari, alcune Ziegfeld Follies?). Comunque, in quelle stagioni lontane, presto arrivavano la Medea con la Callas, Rigoletto e Otello con Di Stefano o Del Monaco.
Ora il Teatro dell’Opera, a Roma, allestisce quattro ricostruzioni filologiche di quelle tipiche e storiche avanguardie americane di mezzo secolo fa. E certamente, nel frattempo, le stilizzazioni neoclassiche plissettate di Martha Graham si sono viste varie volte, forse anche a qualche Maggio Fiorentino. Ma soprattutto al Metropolitan di New York, con serate di ispirazioni elleniche e mistiche e psicanalitiche in tunichette leggerissime, da gipsoteca di Canova a Possagno animate ed elastiche. I danzatori, invece, praticamente nudi, come nella statuaria greca. Così lì m’avvenne di rilevare che Nureyev, forse un po’ tardi si era magnificamente inserito fra quelle sculture animose, a causa dello sviluppo di una carnosità deretana. Quindi lui, tornando a quest’Opera, irruppe all’ufficio stampa, e abbassando tutto davanti alle segretarie in estasi, sbattè le chiappe su una scrivania, esclamando «diteglielo, a quello là!».
Sere fa, all’Opera, dopo Diversion of Angels della Graham veniva Day on Earth di Doris Hamphrey: un caso di espressionismo molto western, vagamente macho, e lievemente pedofilo, a causa di una equivoca piccina. Quindi, una assai impegnativa Ciaccona, di José Limón, da Bach: estremamente virtuosistica, però forse scombiccherata e lugubre.
Per finire, tipicamente, un enorme The River di Alvin Ailey, con musiche di Duke Ellington, forse già sentite? Nei tardi anni Quaranta, quando passava con la sua band a Milano, all’Odeon? E passava anche Louis Armstrong mentre Chet Baker suonava in un albergo lì vicino? Un trionfo di ciuffetti e culone, attualmente, con pile e ammassi di corpi in movimento, e braccia che si agitano in una folle ammucchiata di pirouettes e attitudes.
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Barney Rosset, mancato recentemente a ottantanove anni, a lungo fu il più importante editore americano aperto con la sua «Grove Press» agli sperimentalismi europei, soprattutto francesi. Pubblicava, anche in perdita, Genet, Robbe-Grillet, Ionesco, Adamov, la Duras, e soprattutto Beckett. E anche Burroughs, talvolta, aprendo la strada ad avanguardie americane più o meno sfrontate o redditizie.
John Rechy e Hubert Selby, i versi di Frank O’Hara. Le Roi Jones… Con una eccellente rivista, Evergreen, e qualche ventura nel cinema d’avanscoperta al Greenwich Village, prima che la cultura e gli spettacoli, soprattutto in America, si appiattissero sul livello dei gruppi turistici e dei bambini.
C’erano vari editori d’avanguardia più casalinghi, a quei tempi. Black Sparrow Press pubblicava Paul e Jane Bowles con prefazioni di Tennessee Williams o Gore Vidal. Da Blue Wind Press apparivano frammenti più o meno «attoniti» di William Burroughs. Mentre i suoi primi «classici» vagabondaggi beat — Il pasto nudo, Il biglietto che esplose — uscivano agli inizi, per motivi di censura, presso la parigina Olympia Press. Junkie, sulle esperienze con droghe più o meno forti, uscì addirittura sotto pseudonimo.
D’altra parte, Grove Press pubblicava le recensioni teatrali dell’illustre Harold Clurman, in presa diretta su O’Neill, Arthur Miller, Marlon Brando, il Berliner Ensemble, Thornton Wilder, eccetera. E un popolare bestseller come A cosa gioca la gente, del Dr. Eric Berne.
Ma soprattutto, Barney Rosset fu uno dei fondatori del Premio Formenton, nel 1961. Accanto a insigni colleghi europei: Einaudi, Gallimard, Rowohlt, Weidenfeld, Seix-Barral. Premiati eccelsi: Beckett, Borges, Gadda… Che qualità gli editori di una volta!… A livello di piscina, laggiù a Maiorca, era però inevitabile un raffronto di calzoncini corti. Eccellenti le mutandine e i bermudas per gli americani. Piuttosto imbarazzanti, in braghe veramente di tela, i nostrani. E non solo Gianfranco Contini o Carlo Levi, per mancanza (allora) di «occhio» o boutiques.
Ma anche «distinti» come Giulio Einaudi o Elio Vittorini.

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