Filmare la resistenza negli occhi di un bambino

FESTIVAL – «Five Broken Cameras» in concorso al parigino «Cinéma du Réel»
Il film di Emad Burnat e Guy Davidi racconta cinque anni di lotta in un villaggio palestinese Guardando gli occhi di Gibreel, un bimbo palestinese che a cinque anni ha già  nel sorriso la tristezza di una vita intera, si trovano forse le ragioni di quelle domande che è più difficile porre. Penso all’ideologia dei «martiri» o alla jiahad che negli ultimi due decenni si è fatta strada tra gli avanzantissimi palestinesi.

FESTIVAL – «Five Broken Cameras» in concorso al parigino «Cinéma du Réel»
Il film di Emad Burnat e Guy Davidi racconta cinque anni di lotta in un villaggio palestinese Guardando gli occhi di Gibreel, un bimbo palestinese che a cinque anni ha già  nel sorriso la tristezza di una vita intera, si trovano forse le ragioni di quelle domande che è più difficile porre. Penso all’ideologia dei «martiri» o alla jiahad che negli ultimi due decenni si è fatta strada tra gli avanzantissimi palestinesi. Ragazzi, soprattutto, anche giovanissimi. Ma cosa accade se si cresce vedendo ogni giorno i padri chiusi in galera, gli amici picchiati o uccisi, i soldati israeliani che sparano, soffocano di gas, entrano nelle case e con arroganza abusano del loro potere? Fino ad arrestare nella notte, armati fino ai denti come le teste di cuoio che tentano qualche blitz contro pericolosi delinquenti, ragazzini spaventati di dieci anni. Sembrano Erode mentre sfondano le porte delle case nei villaggi per acchiappare i bimbi che hanno tirato solo pietre.
La resistenza palestinese al muro, alle terre rubate, alle ruspe che distruggono le abitazioni, alla feroce determinazione di quei militari nutriti di ideologia razzista e di violenza eccitata, è senza armi: gridano, battono tamburi.
E però fa male anche osservare questi ragazzini «partecipare alla vita», come ci dice la voce narrante, dello stesso regista, per capirne la fragilità perdendo così il diritto alla spensieratezza innocente nel rancore di un dolore che da piccoli non si può capire.
Il piccolo Gibreel corre dietro al padre mentre questi filma le proteste contro la barriera che Israele ha costruito intorno al piccolo villaggio di Bil’in, palestinese coi colori del Brasile, dove è cresciuta la sua mamma. Ripete gli slogan e il padre si addolora per quella sua aria adulta quando ha appena 5 anni. Ha condiviso la violenza, la morte. L’amico del padre, un fratello maggiore per il bimbo, Phil, soprannominato l’Elefante, è stato ucciso dagli israeliani. Il padre, cioè il regista, è stato arrestato più volte e quasi è morto in un incidente di auto dovuto allo stress.
Five Broken Cameras è firmato da Emad Burnat e Guy Davidi, ed è il diario di cinque anni, dalla nascita del piccolo Gibreel a oggi, nel corso dei quali il regista, militante contro l’occupazione palestinese, filma la resistenza del villaggio all’occupazione israeliana. Che divora la terra palestinese, distrugge gli ulivi, devasta il paesaggio con òe costruizioni degli insediamenti per i coloni. Casermoni a dieci piani, scatole di cemento armato attaccate uno all’altra dove stipare gli israeliani quasi sempre ultraortodossi. I soldati proteggono i lavori anche perché dietro alla mitologia della «terra promessa», c’è la speculazione edilizia delle grosse compagnie che fanno affari su quei terreni. E infatti anche se il tribunale israeliano da ragione al villaggio, sul fatto che gli israeliani hanno preso più terra, i fili spinati continuano a essere là.
Emad è nato su quelle terre, il padre le coltivava e lui da piccolo non voleva lavorare i campi, preferiva corerre nella valle con gli amici. I suoi figli sono chiusi invece dietro alle sbarre, ogni volta devono chiedere ai militari isrtaliani di aprire il lucchetto, a loro discrezione, si può anche aspettare ore. E non hanno nemmeno il diritto di vedere il mare …
Ogni venerdì il villaggio si dà appuntamento davanti al muro, ci sono anche militanti israeliani e di altri paesi, per la protesta. Ogni venerdì volano proiettili e gas lacrimogeni, la reazione degli israeliani è sempre più rabbiosa.
Intanto tra i palestinesi crescono frustrazione, depressione, povertà.
«Perché non uccidi con un coltello i soldati israeliani?» chiede il piccolo Gibreel al padre. Non va bene, sarebbe peggio spiega l’uomo. E si dice: «La protesta non violenta ha il suo prezzo». Lui filma. E costruisce una memoria collettiva che coincide coi suoi figli, il primo nato durante gli accordi di Oslo, l’ultimo, il piccol Gibreel cinque anni fa. Da allora non si è mai fermato. Le sue cinque telecamere hanno ognuna una storia, qualcuna gli ha salvato la vita. E questo film, anche nei suoi eccessi, diviene un racconto prezioso, senza clamori, di un quotidiano che rimane nel fuoricampo mondiale anche se avviene tutti i giorni. E fa male.

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