Festival«Lussuria» inaugura la 22a edizione della rassegna sul cinema africano dell’Asia e dell’America latina. Un melò che ha anticipato gli umori di piazza Tahrir MILANO Il film di Khaled el Hagar è ambientato nei quartieri poveri
Festival«Lussuria» inaugura la 22a edizione della rassegna sul cinema africano dell’Asia e dell’America latina. Un melò che ha anticipato gli umori di piazza Tahrir MILANO Il film di Khaled el Hagar è ambientato nei quartieri poveri
Il regista sceglie il grottesco, e con la sua eroina racconta il presente È piuttosto spiazzante imbattersi, nella serata inaugurale del 22° festival del cinema africano dell’Asia e dell’America latina di Milano (che domenica scodellerà i suoi premi), in El Shooq (Lussuria), un film egiziano del 2010. Siamo infatti riempiti, in altre sale del festival e in tv, da estasianti immagini di maghreb e mashreq insorgenti. Rouge Parole, di Eyes Baccar, ha appena raccontato, in forma di documentario, e utilizzando molto girato amatoriale, il tumulto popolare (18 gennaio-fine febbraio 2011) che, dopo il suicidio di Mohamad Bouazizi, ha costretto alla fuga il dittatore tunisino Ben Alì aprendo una fase conflittuale più trasparente e avanzata. Siamo poi entrati, assieme a Stefano Savona, nel cuore stesso della rivolta popolare del Cairo, quando la moltitudine si fa potere costituente e, non senza contraddizioni interne, impone alla storia di voltare pagina comunque… Ed ecco che questo film-incubo ci riporta invece indietro nel tempo, anche se l’abolizione dello stato sociale, con relativa perdita, per i cittadini, dei diritti fondamentali (casa, scuola, acqua e cure mediche, vero diritto di voto) è così moderna e «global» che forse costerà a Obama la rielezione…
Lussuria è infatti il titolo, piuttosto ironico, di un melodramma popolare old fashion, come se ne facevano negli anni 50 e 60 nasseriani, girando spesso sadicamente tutt’attorno alla disperazione di una donna come questa – truccata in modo da esasperare tutto il suo potenziale lamentoso e stregonesco – impotente all’inizio di fronte alle calamità maligni e circondata da figlie adolescenti scervellate e gioconde, orride e avide sorelle di campagna, mariti impotenti e pavidi, mentre il figlioletto sta morendo di una grave malattia, curabile con la dialisi facilmente, se non costasse, il trattamento, cifre sovrumane… Ovvio che la mamma, Fatma (Sawsan Badr)- solo chi cade può risorgere – erede di quelle popolane alla Dalidà capaci di sconvolgere il mondo, si rivelerà un osso piuttosto duro, se avrà solo modo di creare una rete di solidarietà dal basso che la porterà dall’elemosinare come scienza della sopravvivenza (ma il piccolo è ormai spacciato) allo strozzinaggio e all’usura più crudele… I modelli di questo film erano metafore populiste costrette a propagandare, incredule, il «socialismo panarabo» come soluzione. Meglio spingere sul miserabilismo, costruendo perfette macchine lacrimogene che utilizzavano «merce spettacolare» per produrre industrialmente compassione, in barba a ogni etica neorealista.
Il regista, Khaled El Hagar, cinquantenne, cinque film alle spalle, predilige invece la svolta grottesca – non è più tempo di Tariq Salah e Yussef Chahine (loro almeno trasformavano il mélo in urlo di rivolta) – e ambienta il suo dramma negli stessi quartieri poverissimi di Alessandria d’Egitto, a un passo dal mare, che sono stati il set della nuova onda rivoluzionaria egiziana, anticipazione heavy metal dei fatti di piazza Tahrir (le opere «giovanilistiche e ribelli» di El Batout e Abdallah, si svolgono proprio nei vicoletti limitrofi…). Però, invece di abbandonare la sua eroina nelle mani del destino e di Allah, qui si indica, con orrore, come il precedente regime si incorporava, come demone, perfino nei sotterranei più derelitti: la sua avidità era l’ avidità lumpen. Si tocca inoltre, e in anticipo, un punto chiave della vicenda egiziana, la salute. O meglio la mancanza di ogni prevenzione epidemologica e di assistenza sanitaria pubblica garantita per tutti. Le statistiche parlano chiaro. Il numero di morti (tra i proletari e sottoproletari) causato dal disinteresse totale di Mubarak per la situazione igienica del paese era agghiacciante. Un orrore che gli organismi sanitari mondiali tacevano e che è stato non solo uno dei motivi che hanno spinto al tumulto le masse più diseredate e coscienti, ma anche la spiegazione della impotenza dell’esercito nel domare, da subito, la rivoluzione. Una percentuale altissima di egiziani è infatti falcidiata da epidemie mortali. Non ha nulla da perdere. Si va incontro ai carri armati quando si sa che da spezzare ci sono solo le catene e che, forse, la nostra vita ci è già stata scippata. E che c’è chi intanto fa soldoni sia coi virus che con la disperazione.
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