L’ex brigatista rivendica il diritto all’oblio

Ora è un prof di economia: venga cancellato il mio passato dagli archivi

Ora è un prof di economia: venga cancellato il mio passato dagli archivi ROMA — Ha fatto il brigatista rosso quando non aveva ancora vent’anni, dopo una precoce militanza nei gruppi che praticavano gli «espropri proletari. A ventuno ha sparato alle gambe del segretario di una sezione democristiana della periferia romana, partecipato all’«inchiesta» su un obiettivo da colpire e ospitato qualche riunione del comitato esecutivo delle Br in casa dell’ignara nonna. Nel 1982, a ventitré anni, è stato arrestato e ha subito cambiato strada: s’è pentito, ha fatto arrestare diversi suoi ex compagni, ha avuto gli sconti di pena previsti dalla legge.

Ripresi gli studi in economia s’è laureato, e appena uscito dal carcere ha intrapreso la carriera accademica e frequentato corsi all’estero. E’ diventato professore associato in una università della Toscana, il suo curriculum conta decine di pubblicazioni. E oggi chiede che il suo passato di brigatista venga cancellato dagli archivi telematici, invocando la legge sulla privacy e il «diritto all’oblio» per «non vedere incrinata o distrutta la propria riconquistata considerazione sociale».
E’ l’inedita e curiosa iniziativa di M.B., 53 anni, ex «soldato» della colonna romana delle Br, il quale ha scritto al Centro di documentazione «Archivio Flamigni» — la fondazione che conserva forse il più completo archivio sul terrorismo e l’eversione in Italia — intimando di eliminare il suo nome dagli indici e comunicando di opporsi «al trattamento dei dati» connessi ai suoi trascorsi sovversivi. Che peraltro, sostiene, «appartengono ormai al passato, sono già stato resi noti all’epoca e hanno perso quel carattere di attualità che ne potrebbe giustificare l’ulteriore pubblicazione».
Il professore si appella alle norme che proteggono la riservatezza lamentando il fatto che digitando il proprio nome sui motori di ricerca telematica «compaiono numerosi articoli pubblicati anche negli anni recenti su archivi on line di quotidiani e siti internet, nonché diversi blog di discussione, in cui viene offerta una connotazione negativa dello scrivente, denominato “ex brigatista” o “terrorista rosso”, e posto in diretta relazione» con episodi e avvenimenti di trent’anni fa. Tutto questo è ingiusto, si lamenta l’interessato che ha scontato la pena, ha chiuso da tempo i suoi conti con la giustizia ed è stato definitivamente riabilitato dai tribunali: «Gli errori del passato non possono costituire segni indelebili dell’identità». Ed è dannoso per lui che vede «alterata e danneggiata la rinnovata ed attuale identità personale, il proprio onore e la propria ricostruita reputazione», giacché gli eventi del passato «caricano la sua persona di una connotazione negativa».
Le vesti dell’ex brigatista, insomma, non gli stanno più addosso e non devono essere rievocate quando si parla del professor B. Tanto più adesso che «ha stretto un legame affettivo stabile e tra pochi mesi diventerà padre», come scrive il suo avvocato, segnalando che la «illegittima divulgazione» delle sue gesta giovanili può «arrecare danno al benessere e alle relazioni interpersonali non solo della compagna ma anche del prossimo nascituro». Di qui «l’invocazione e l’esercizio del diritto all’oblio», con l’avvertimento che se non sarà rispettato si rivolgerà alla magistratura o al garante della privacy per ottenere di depennare dalle sue biografie la militanza nelle Brigate rosse.
Il problema è che la storia di M.B. — insieme a quelle di centinaia di altri ex terroristi, soprattutto quelli che hanno collaborato con la giustizia — fa parte della storia collettiva del Paese. Basti pensare che i suoi verbali d’interrogatorio, sono stati acquisiti dalla commissione d’inchiesta parlamentare sul caso Moro, e sono conservati nell’archivio storico della Camera e del Senato. Anche quelli in cui ha raccontato di aver sparato alle gambe di Domenico Gallucci, il dirigente della sezione democristiana del quartiere romano di San Basilio ferito il 19 maggio 1980. Lo aspettarono sotto casa alle 7,30 del mattino, quando uscì per portare fuori il cane. I brigatisti lo affiancarono a bordo di una macchina, dal finestrino uno si sporse e lo chiamò con la scusa di chiedergli un’informazione. «In quel momento — ha raccontato B. al pubblico ministero Domenico Sica — io che ero sul sedile posteriore ho fatto fuoco. Il primo colpo è andato a vuoto, Gallucci è scappato. Ho sparato ancora. Correndo Gallucci è caduto. Allora io sono riuscito a colpirlo».
Di fronte all’originale pretesa del professore, la deputata del Pd Sabina Rossa – figlia dell’operaio comunista Guido Rossa, ucciso dalle Br nel 79 — ribatte che «la memoria non si può privatizzare, è un atto pubblico che serve a dare voce e vita a quelle persone che sono morte senza un perché ma non a caso e non invano, bensì per affermare dignità e valori che fanno di noi oggi persone libere». L’onorevole Rossa è una decisa sostenitrice del reinserimento degli ex terroristi ed ex detenuti, ma pensa che il brigatista divenuto affermato docente ed economista «abbia il dovere, nelle occasioni pubbliche e soprattutto se di fronte ad una platea di studenti, di premettere ciò che è stato e quali furono i suoi errori. Se vogliamo davvero ricomporre le fratture di quegli anni, nessuno può permettersi di dimenticare e invocare l’oblio, perché la democrazia non dimentica e non paga prezzi a nessuno».
Giovanni Bianconi

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