L’uomo che sussurra ancora ai cavalli

È l’unico sopravvissuto del trio di addestratori a cui si ispirò il film di Redford, che oggi gli dedica un documentario. Buck Brannaman viaggia in tutto il mondo per spiegare “come comprendere i sentimenti di questi splendidi animali”.  “Non dobbiamo cavalcare meglio, ma farla finita con il nostro complesso di superiorità “. “Laddove una persona in forma dà  il 5% di quel che può, la bestia invece dà  il 95%” 

È l’unico sopravvissuto del trio di addestratori a cui si ispirò il film di Redford, che oggi gli dedica un documentario. Buck Brannaman viaggia in tutto il mondo per spiegare “come comprendere i sentimenti di questi splendidi animali”.  “Non dobbiamo cavalcare meglio, ma farla finita con il nostro complesso di superiorità “. “Laddove una persona in forma dà  il 5% di quel che può, la bestia invece dà  il 95%” 

Robert Redford abbraccia la testa del purosangue traumatizzato da chi lo picchiava fino a ieri, e carezzando la spinge giù alla sua altezza, poi gli sussurra alle orecchie. Certe emozioni te le dà solo il grande cinema, e L´uomo che sussurrava ai cavalli rimane nel cuore di generazioni. Ma un uomo che sussurra ai cavalli esiste davvero. Si chiama Buck Brannaman, è l´ultimo superstite d´un trio di addestratori. Gira il mondo, richiestissimo, perché capire le emozioni e i pensieri dei cavalli, rappacificarli con noi esseri umani è la sua vocazione. Welt am Sonntag gli ha dedicato l´altro giorno un reportage commovente e un film-documentario su di lui, Buck, arriverà in Europa a giugno. Manco a dirlo, anzi forse avete già indovinato, lo dobbiamo proprio a Robert Redford.
Erano in tre, Buck appunto, più Tom e Ray, come in un film, i cowboy buoni. S´incontrarono per caso, ognuno di loro con una vita difficile alle spalle. A cominciare da Buck, che da bambino era coperto di cicatrici per le frustate del padre. Buck era cresciuto nel profondo west: villaggi polverosi coi cespugli a palla spinti via dal vento, umili case in legno, e il silenzio rotto solo a tratti dal rombo delle possenti locomotive diesel della Union Pacific, tra ululati lontani, dalla country music di qualche radio o dall´argenteo autobus Greyhound su cui le ultime belle ragazze del villaggio partono per sempre verso le luci delle città. E quando con mamma scappò di casa, lontano dal padre-padrone violento, lei gli disse: «Ragazzo, impara a diventare un addestratore che piega i cavalli frustandoli e farai soldi a vita». Buck cominciò così, come il documentario del grande Redford si prepara a narrarci. Metodi duri, zampe legate per far cadere nel recinto il puledro restio, bastone. Finché, racconta ad Anna Joel, autrice del reportage perubblicato da Welt am Sonntag, non incontrò i due maestri che gli cambiarono la vita: Tom Dorrance e Ray Hunt, che laggiù nella prateria delle leggende avevano maturato altre idee su come convivere con il cavallo. E Buck ancora adesso li ricorda con rimpianto. Sembra quasi una trama con John Wayne, Alan Ladd, Gary Cooper o Dean Martin, invece è realtà. «Il principio che imparai da Tom e Ray era trovare l´unione di sentimenti ed emozioni col cavallo, la comunicazione di pensieri, timori e speranze tra me e lui», spiega Buck. «Prima, per decenni, ero inutile o dannoso al rapporto tra cavalli e uomini che da millenni accompagnatva la Storia».
In Italia, a Voghera, c´è l´unica scuola d´equitazione europea dove Buck viene e tramanda la sua arte di capire e rispettare il quadrupede più bello della natura. Arrivano da ogni parte d´Europa, alla Voghera cowboys guest ranch academy, per apprendere il segreto di Buck: «Fu Tom a insegnarmelo, perché noi non aiutiamo uomini a capire cavalli problematici, ma aiutiamo i cavalli che hanno problemi con gli uomini». Regole di non violenza: devi sempre percepire ogni segnale del cavallo, imparare a chiedergli di meno per ottenere di più da lui, «il mio obiettivo è ridurre al minimo possibile la pressione, per raggiungere più intesa possibile con il cavallo». Perché la vera sfida, spiega nei corsi che vola a tenere in ogni angolo del mondo, «è capovolgere la prospettiva nelle teste degli umani, insegnare a ogni horseman a tenere i suoi sentimenti sotto controllo». E ad adeguarsi ai sentimenti del cavallo: quel che conta è imparare a dare un senso a quel che fai con lui. «Tom, Ray e io ne abbiamo conosciuti tanti di cavalli ridotti a umili agnelli spaventati da padroni brutali, e con noi tornarono energici e fieri come tigri, ma tigri con cui ci capivamo».
Perché l´idea di Tom Dorrance era sempre la stessa: «Cercare di far capire al cavallo che l´uomo può essere migliore di quanto in realtà non sia in generale». Emozioni e tristezze, speranze e paure, il cavallo le prova come noi. Se non lo capisci, è inutile e non solo crudele imporgli di farsi cavalcare, era questo il credo dei tre cowboy dal volto umano. «Non si tratta di venire da noi per imparare a cavalcare meglio, bensì di costruire un rapporto con questi splendidi animali. Basta con i nostri complessi di superiorità», spiegò Ray Hunt. «Mettiamoci in testa che in una situazione in cui l´essere umano dà il 5 per cento delle sue forze e doti, il cavallo ne dà il 95 per cento almeno». Cerchiamo di non dimenticarlo, e a loro modo i nobili, spesso maltrattati amici a quattro zampe potranno renderci migliori davanti alla vita.

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