La tutela e il peso della memoria

Nei giorni scorsi una sorprendente richiesta è stata avanzata al Centro di documentazione Archivio Flamigni di Roma, che raccoglie molte memorie sugli anni del terrorismo e delle stragi. Un ex terrorista che partecipò alla lotta armata negli Anni Settanta ha chiesto, tramite il suo avvocato, di cancellare dall’archivio tutto ciò che riguarda le vicende che lo coinvolsero e per le quali venne condannato e ha scontato la sua pena. Tutto questo apre due importanti filoni di riflessione.

Nei giorni scorsi una sorprendente richiesta è stata avanzata al Centro di documentazione Archivio Flamigni di Roma, che raccoglie molte memorie sugli anni del terrorismo e delle stragi. Un ex terrorista che partecipò alla lotta armata negli Anni Settanta ha chiesto, tramite il suo avvocato, di cancellare dall’archivio tutto ciò che riguarda le vicende che lo coinvolsero e per le quali venne condannato e ha scontato la sua pena. Tutto questo apre due importanti filoni di riflessione.
Il primo, squisitamente tecnico, riguarda la definizione di regole che consentano di conciliare le fondamentali esigenze di conservazione e di utilizzo di documenti che appartengono alla nostra storia collettiva, con quella del rispetto della privacy. E’ una questione delicata, che deve essere affrontata congiuntamente dagli archivisti, dagli storici, dagli enti e realtà impegnate nella conservazione di documenti e dal Garante della privacy. Alla luce della normativa vigente e delle esigenze della ricerca sul nostro passato. Ricerca che, ovviamente, è strettamente intrecciata alle concrete vicende degli essere umani che le hanno vissute e agite. E’ un tema sul tappeto da diverso tempo, del quale la Rete degli archivi per non dimenticare, promossa dall’Archivio Flamigni, si è fatta, in diverse occasioni, promotrice.

Ma mi pare che la «richiesta di oblio» debba spingerci anche ad un secondo livello di riflessione. Non tecnico, questa volta, ma piuttosto sociale e umano. Uno dei temi che qualifica la nostra vita democratica, a partire dalla scrittura e dalla promulgazione della Costituzione repubblicana, è quello di una ferma volontà di non escludere nessuno e, anche, di fare di tutto perché chi ha contravvenuto alle regole comuni, anche con gravissimi fatti di sangue, possa, con un percorso doloroso e difficile, ritornare pienamente nella società. Questo significa accettare che le persone possono cambiare. Magari con l’aiuto dello Stato e della società, così come è avvenuto per tanti che furono protagonisti, di diverso colore, dei cosiddetti «anni di piombo».

Cambiare però significa far cadere le catene dell’ideologia e dell’odio, e ritornare uomini e donne. Significa comprendere il male che si è fatto, male che non c’è modo di cancellare né di dimenticare, e i cui effetti dureranno per sempre. Cambiare significa sapersi responsabili fino in fondo di ciò che si è compiuto e desiderare, in ogni modo, di riparare, senza illudersi di cancellare i fatti e le colpe con la loro rimozione. Tante donne e tanti uomini degli anni di piombo, e non solo, hanno scontato molti anni di prigione e di severa limitazione della libertà. Ma, soprattutto, sono cambiati. Malgrado questo, un loro pieno reinserimento non viene accettato. La richiesta di oblio può venire certo dal desiderio, impossibile da realizzare, di cancellare quello che è stato. In questo caso il problema è la difficoltà di chi lo chiede di fare i conti con il proprio passato. Ma se una simile richiesta venisse invece dal disperare di essere accolti, il problema sarebbe nostro, della società tutta. E dovrebbe spingerci ad una attenta riflessione che ci porti da un lato a salvare la memoria e la storia e dall’altro ad accogliere davvero chi è cambiato.

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