Innominabile vecchiaia

Tanti sono i cliché che circondano la fase vitale in cui, ha notato Pierre Bourdieu, «lo spazio dei possibili si restringe». Un libro di Enrico Pugliese, «La terza età », smonta diversi stereotipi, dai catastrofismi demografici alla fragilità  dell’anziano. Ma saggi e romanzi rivelano che nella nostra società  il tema è un tabù

Tanti sono i cliché che circondano la fase vitale in cui, ha notato Pierre Bourdieu, «lo spazio dei possibili si restringe». Un libro di Enrico Pugliese, «La terza età », smonta diversi stereotipi, dai catastrofismi demografici alla fragilità  dell’anziano. Ma saggi e romanzi rivelano che nella nostra società  il tema è un tabù

Se sulla riva nord del Mediterraneo non c’è una «primavera europea», mentre su quella meridionale ci sono state le «primavere arabe», una delle ragioni più spesso addotte è che in Egitto gli under-25 anni sono il 52% della popolazione, in Siria il 55% (e così via), mentre in Italia sono attorno al 24%: lì i giovani sono più della metà, da noi meno di un quarto: i giovani protestano, gli anziani chinano il capo. Perché l’Italia è, con il Giappone, il paese sviluppato con più anziani al mondo. Per parafrasare all’incontrario il titolo di un celebre romanzo di Cormac McCarthy (e di un omonimo film dei fratelli Cohen), questa è terra per vecchi.
Catastrofismi demografici
Ma perché si dà per scontato che i giovani si rivoltano e i vecchi subiscono? Una prima spiegazione ce la offriva nel suo seminario Pierre Bourdieu quando parlava della «biopolitica volgare» e spiegava che i giovanissimi sono ancora fuori dal mercato del lavoro – e quindi dal sistema -, e perciò vogliono cambiare completamente il sistema (sono «rivoluzionari»); poi entrano in posizione subalterna nel mercato del lavoro e perciò vogliono cambiarlo dall’interno per migliorare la propria posizione (sono «riformisti»), quindi man mano che s’inoltrano nell’età adulta e fanno carriera giungono all’apice della propria traiettoria lavorativa, e perciò vogliono mantenere lo status quo attuale, lo vogliono «conservare»; mentre, quando sono usciti dal mercato del lavoro – sono fuori sistema -, vorrebbero tornare indietro e quindi sono letteralmente «reazionari» (naturalmente tutto ciò nell’accezione statistica, che contempla fluttuazioni, eccezioni, contraddizioni).
Ed è appena uscito un libro che studia gli anziani di questa nostra terra per vecchi soprattutto dal punto di vista del mercato del lavoro, scritto dal nostro storico collaboratore Enrico Pugliese: La terza età. Anziani e società in Italia (Il Mulino, pp. 212, euro 13). Un libro che smonta una serie di luoghi comuni, sfata molte leggende e mette un grano di sale nelle insulse ricette politiche dei nostri legislatori.
Il primo luogo comune che Pugliese sfata è il catastrofismo della «bomba demografica», sia perché le previsioni si sono rivelate spesso false, e non solo in demografia: basti andare a riguardarsi le previsioni del rapporto del club di Roma del 1972: quell’augusto consesso non ne aveva azzeccata praticamente nessuna. Sia perché le curve demografiche non sono una fatalità naturale, ma sono il risultato di situazioni culturali e sociali mutevoli. L’emigrazione di molti giovani contribuisce a invecchiare la popolazione che si lascia indietro, come al contrario l’immigrazione contribuisce a ringiovanirla. Quindi si può svecchiare un paese favorendo l’immigrazione o con politiche che incentivano la nascita di bambini (assegni familiari, strutture di sostegno come asili nido, permessi estesi di maternità e paternità) come è avvenuto in Francia, dove negli ultimi 25 anni sono stati messi al mondo 5 milioni di bambini più che in Italia. E poi nella piramide demografica vi sono veri e propri buchi che derivano dai figli non nati a causa di guerre o di crisi economiche.
Un secondo cliché sfatato da Pugliese è l’immagine debilitata dell’anziano. L’estensione del sistema pensionistico a tutta la popolazione attiva nel secondo dopoguerra ha di fatto cancellato il miserabilismo che circondava l’immagine del vecchio: nel Meridione i pensionati costituiscono addirittura una risorsa indispensabile per molte famiglie. Pugliese ci ricorda che non solo viviamo statisticamente più a lungo, ma che viviamo meglio e in migliore salute, tanto che ormai si deve distinguere tra una terza età (grosso modo fino ai 75 anni) e una quarta età, tra anziani e grandi vecchi.
Perché la vecchiaia è al tempo stesso in parte stato fisico e in parte costruzione sociale. Pierre Bourdieu insisteva molto sul fatto che l’invecchiamento sociale è il restringersi dello spazio dei possibili. Un giovane di ceto medio può finire a fare il barista a Salvador de Bahia o il ricercatore a Stanford, ma poco a poco le sue possibilità si restringono finché non può essere altro che quello che è stato. Da questo punto di vista, un operaio ventenne dell’800 era già vecchio, perché nella vita non avrebbe mai potuto essere altro, mentre un borghese poteva restare «socialmente giovane» anche fino a 40 anni (oggi si parla di «giovani scrittori» anche per i quasi cinquantenni). Così, la pensione (che è la sanzione legale e formale dell’invecchiamento) riguarda solo le frazioni dominate (anche quelle delle classi dominanti), mentre i dominanti non vanno mai in pensione: grandi medici, politici, grandi banchieri, artisti, finanzieri restano in sella anche da vegliardi.
Segregazione per età
E Pugliese fa notare quanto sia fuorviante il dibattito convenzionale sull’allungamento dell’età pensionabile: tutti discutono, dice Pugliese, come se toccasse al lavoratore scegliere il momento in cui «andare a riposo», ma in realtà quel che sta succedendo è che le persone vengono espulse dal mercato del lavoro sempre più presto, mentre l’età pensionabile si allunga. Già oggi in Italia i 55-65 anni per buona parte non lavorano o perché licenziati o perché non riescono a trovare un nuovo lavoro, e spesso non compaiono nelle statistiche perché vengono cancellati dalla forza lavoro attiva in quanto, scoraggiati, non ricercano più un’occupazione. Così oggi vi sono sempre più persone anziane gettate sul lastrico perché non percepiscono più un reddito da lavoro e non sono ancora eleggibili per una pensione (è quel che rischia di capitare a molti di noi del manifesto). E in periodo di recessione questo tipo di destino sociale diventa sempre più diffuso.
Tre altri punti sono notevoli nel volume di Pugliese. Il primo riguarda le mutazioni della vecchiaia in un mondo globalizzato. Neanche il futurologo più delirante avrebbe mai potuto prevedere nel 1980 che trent’anni dopo una percentuale consistente di anziani italiani sarebbe stata sposata a donne ucraine. Visti i suoi trascorsi di studioso dell’immigrazione, non stupisce l’attenzione (e la simpatia umana) che Pugliese presta a quel fenomeno tipicamente italiano della «badante» e alla frangia crescente di vecchi immigrati sradicati, che siano italiani in America Latina o stranieri in Italia, che non possono più tornare nel paese d’origine ma si trovano emarginati in quello d’accoglienza.
Il secondo punto è che sempre più nelle nostre società vige la segregazione sociale per età, dovuta in primo luogo al fatto che sempre meno nonni vivono accanto ai nipoti e sempre più le famiglie sono mono- o al massimo bi-generazionali: single o coppie, o al massimo coppie con figli, anche se forse su questo punto Pugliese sottovaluta il peso che ha in Italia il problema abitativo: è impossibile, insostenibile trovare abitazioni che possano alloggiare con agio una famiglia multigenerazionale. Ma la segregazione per età riguarda anche i luoghi di ritrovo, le attività di svago, ed è dovuta alla mancanza d’immaginazione da cui noi umani siamo afflitti. Tutti coloro che vecchi non sono suppongono infatti che l’anzianità esteriore, delle rughe, corrisponda a una vecchiaia interiore, a rughe mentali. Ma così non è: non potete immaginare la sorpresa che mi ha colto le prime volte che dei giovani mi hanno offerto il posto sull’autobus. Sorpresa perché io non mi vedevo affatto come mi vedevano loro: sei marcato di vecchiaia innanzitutto dall’esterno. Come diceva un relatore accanto a me a un dibattito all’università di Padova sull’argomento: «La vecchiaia è una gran fregatura». Malgrado le (precarie) migliorie apportate dai sistemi di welfare che Pugliese descrive.
L’ultimo punto riguarda l’ideologia. C’è una enigmatica contraddizione tra realtà sociale e ideologia diffusa attorno a questa realtà. Per esempio, in Italia un familismo persino ossessivo e opprimente va di pari passo con politiche che penalizzano le famiglie e le oberano di funzioni non assolte dallo stato, nella cura sia degli infanti che degli anziani. Altro caso: la nostra società sfavorisce in modo pesante i giovani (più alto tasso di disoccupazione, difficoltà d’ingresso nel mercato del lavoro), discriminazione che si riflette nell’uso dell’aggettivo «giovanile» quasi solo in contesti negativi: «subculture giovanili», «criminalità giovanile» (si è mai sentito parlare di «criminalità senile»?). Ma nello stesso tempo la società è pervasa dal giovanilismo, dall’ideologia che ci vuole tutti giovani e che spinge a inseguire la gioventù fino in tarda età. Il reciproco avviene per gli anziani. Da un lato costituiscono il gruppo sociale più potente, più influente, visto che continuano a detenere il capitale (la proprietà) fino alla fine, come si vede negli Stati Uniti: poiché sono la classe di età a più alta partecipazione elettorale, sono coccolati da democratici e repubblicani tanto è vero che sono l’unico gruppo sociale a godere di un servizio sanitario nazionale pubblico.
Vegliardi letterari
Dall’altro lato però «vecchio è brutto», prevale quel che i francesi chiamano l’agisme, «una forma molto diffusa di pregiudizi relativi alla vecchiaia e alle persone anziane, fonte di discrimnazioni sociali basate su false credenze e stereotipi». Tanto che a conclusione del suo volume Pugliese cita un ironico passo di Peter Laslett: «Un ottantenne che si trovi a partecipare a un convegno di geriatria o gerontologia sentirà sottolineare con tanta insistenza le sue presunte incapacità che finirà col meravigliarsi del fatto stesso di poter essere presente».
In realtà, una delle caratteristiche più forti dell’agisme è la rimozione della vecchiaia, una rimozione che varia nelle culture e a seconda dei generi, e che va dalla cancellazione al confinamento e alla relegazione, come si vede bene dalla letteratura. Certo, nella narrativa occidentale degli ultimi due secoli non mancano memorabili vecchi: papà Goriot (1834), il vecchio David Séchard (1843) e il padre di Eugenie Grandet («vieux tonnelier, vieux vigneron», 1833) di Balzac, Jean Valjean (nei Miserabili, 1862) di Victor Hugo, o il maresciallo Kutuzov in Guerra e pace(1869) di Tolstoj, anche se Séchard viene considerato vecchio già dai 50 anni e ha 61 al tempo della vicenda, Jean Valjean muore a 64 anni e Kutuzov ha 67 anni al momento della battaglia di Borodino (1812).
Di veri vecchi ricordo Dubslav von Stechlin (vedovo da trent’anni) con il suo anziano cameriere Engelke nell’omonimo romanzo (1897) di Theodor Fontane, il Carlino ottantenne delle Confessioni di un italiano (1858) di Ippolito Nievo, il padron ‘Ntoni dei Malavoglia (1881) di Giovanni Verga, o il vecchio pescatore di Ernest Hemingway (Il vecchio e il mare, 1952). Ma mi scrive Franco Moretti: « È come se la cultura europea si fosse specializzata in una cosa che si potrebbe chiamare la tarda mezza età» – Monsieur Homais e Charles Bovary in Flaubert, molto Henry James (il dottor Austin Sleper in Washington Square, l’avvocato sudista Basil Random nei Bostonians), e così via.
I vecchi sembrano essere più protagonisti nei romanzi sudamericani: basti pensare a Cento anni di solitudine (1967), o all’Autunno del patriarca (1975) o all’Amore ai tempi del colera(1985) di Gabriel Garcia Marquez. Mentre la letteratura giapponese contemporanea è costellata di memorabili vecchi, dalla sessantanovenne Orin del villaggio di Narayama che vuole a tutti i costi affrettare la cerimonia della propria morte nel romanzo La leggenda di Narayama di Schichiro Fukazawa (1956), al settantaseienne Shigekuni Honda protagonista de Lo specchio degli inganni (1970) di Yukio Mishima, all’indimenticabile autoritario suocero ormai in preda all’Alzheimer in quel capolavoro che è Gli anni del crepuscolo (1972) della grande scrittrice Sawako Ariyoshi (il romanzo è stato tradotto in inglese e in francese, ma non purtroppo in italiano): il curioso è che sia Mishima sia Ariyoshi sono morti suicidi.
Nella considerazione della vecchiaia vi è poi una frattura di genere, tra uomini e donne. Come si è visto da questa rapida carrellata, le anziane sono minoritarie rispetto agli anziani: la cugina Bette di Balzac non è propriamente vecchia, come non lo è la «vecchia» zia Baby Kochamma nel Dio delle piccole cose (1997) di Arundati Roy.
Le autrici italiane sembrano occuparsi con più attenzione dell’invecchiamento, e soprattutto delle donne che invecchiano. È formidabile la vecchia Alfonsina che vive in una casa di cura, come la descrive mia madre Luce d’Eramo nel romanzo Ultima luna (1993). O l’apparire della vecchiaia a una cinquantanovenne che vive sola, in La fontana della giovinezza di Luisa Passerini (1999). D’altronde negli Stati Uniti è stato pubblicato un libro dedicato all’argomento: Women of a Certain Age. Contemporary Italian Fictions of Female Aging (2005) di Rita C. Cavigioli.
La paura del futuro
Eppure la rimozione, caratteristica generale nel caso dell’agisme, diventa più evidente per le donne. Esemplare il caso di un libro uscito nel 1987 negli Stati Uniti: si intitola Ourselves, Growing Older. Women Aging with Knowledge and Power (1987) ed è il seguito ideale di un testo che è stato un livre de chevet del femminismo negli anni ’70 e cioè Our Bodies, Ourselves (1971) del Boston Women’s Health Book Collective. Il secondo libro, che affronta i problemi dell’invecchiamento con saggezza e senza eufemismi, si propone come «A Book for Women Over Forty». Ma alla fine degli anni ’80 questo nuovo libro del collettivo bostonianosi è scontrato con il muto rifiuto da parte delle stesse donne (allora attorno ai quaranta) che avevano tradotto con entusiasmo Noi e il nostro corpo, né è stato tradotto in seguito. Perché l’agisme, accoppiato col giovanilismo esteriore, lo subiscono assai più le donne degli uomini. Non solo, ma in questa rimozione è possibile leggere anche l’incerto rapporto che l’anzianità instaura col futuro, un rapporto sempre più traballante che caratterizza l’invecchiamento, una paura di fare progetti a lungo termine, il senso di avvicinarsi a gran passi all’ultimo recinto invalicabile.
Il restringersi dei possibili di cui parla Bourdieu assume qui la forma inesorabile del restringersi dell’orizzonte temporale (è un’altra delle ragioni del conservatorismo senile: gli anziani hanno uno scarso interesse personale in mutamenti di cui pensano di non poter vedere gli effetti). A meno di non essere come il grande sinologo Joseph Needham (1900-1995) che incontrai nel 1982 nella sua indimenticabile stanza al Caius College di Cambridge, quando ottantaduenne stava lavorando alla sua grande storia Science and Civilization in China iniziata nel 1954: da allora in 28 anni aveva pubblicato i primi 5 volumi e quando gli chiesi quanti volumi contava di scrivere ancora, «Sette» mi rispose, come se lo aspettassero altre sterminate praterie di lavoro e ricerca.

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