Un libro sugli eventi del 2011 con la prefazione di Lucio Caracciolo. L’evento più temuto dagli Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna era il possibile contagio rivoluzionario all’Arabia Saudita baluardo degli interessi occidentali nella regione
Un libro sugli eventi del 2011 con la prefazione di Lucio Caracciolo. L’evento più temuto dagli Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna era il possibile contagio rivoluzionario all’Arabia Saudita baluardo degli interessi occidentali nella regione
La rivolta contro il regime di Mu´ammar Gheddafi in Libia, a metà del febbraio 2011, segna l´avvio della rivoluzione libica e della controrivoluzione geopolitica regionale pilotata dalle petromonarchie del Golfo e parallelamente dai Fratelli musulmani, con il sostegno di Francia, Gran Bretagna e – assai più defilati ma decisivi – Stati Uniti. La caduta e l´esecuzione di Gheddafi sono una cesura nella finora breve vicenda della Libia (in quanto Stato, invenzione coloniale italiana degli anni Trenta), ma sono soprattutto un evento fondamentale sul più vasto scacchiere regionale.
Il caso Libia merita dunque uno studio particolare. Non solo in quanto possibile apertura di una stagione di libertà e di progresso in Tripolitania, Cirenaica e Fezzan, peraltro incerta. Ma soprattutto come argine nei confronti della prima ondata insurrezionale che dal 17 dicembre 2010 aveva scosso il Nord Africa, a partire dalla Tunisia e dall´Egitto. Sisma percepito con terrore dall´Arabia Saudita e dai suoi satelliti nel Golfo. Regimi assolutisti che sposano il pubblico purismo islamico (di rado praticato in privato) al vincolo strategico con l´America, fondato sullo scambio fra energia araba e asset militari a stelle e strisce rivolti contro l´arcinemico comune: l´Iran. In ciò alleandosi di fatto con Israele.
Il motto che lega i controrivoluzionari d´Oriente e Occidente, e sul quale convergono gli interessi delle principali economie del mondo, è: «Impedire che la “primavera araba” diventi “primavera araba saudita”». A quel punto, l´inverno globale sarebbe garantito. Il principale produttore energetico in subbuglio, e con esso probabilmente la vasta corona delle petromonarchie arabe e del Golfo, sommato alla crisi finanziaria ed economica partita dagli Stati Uniti, diffusa in Europa e ormai minacciosa persino per la Cina: il peggiore degli scenari possibili.
Fra i prezzi che Stati Uniti e altre potenze occidentali sono stati disposti a pagare – almeno finora e con qualche riluttanza – spicca l´apertura di credito alla Fratellanza musulmana. In Egitto, in Marocco, in Tunisia e anche in Libia – aspettando Siria, Palestina, Giordania e altri paesi ancora. Non per simpatia, ma per realismo. Caduti i dittatori amici, e in attesa che i principi delle rivoluzioni americana e francese attecchiscano da quelle parti, i principali attori oggi organizzati, relativamente credibili e molto pragmatici sono i Fratelli. O almeno la parte più moderna e meno fanatica di quel grande movimento sociale e politico.
È presto per intuire come finirà la rivoluzione libica. Soprattutto, sarà importante osservare la competizione per i territori e le loro risorse – petrolio, ma anche acqua – fra le varie fazioni politiche, etniche e religiose, che continua a suon di kalashnikov.
Non sappiamo ancora chi abbia vinto la guerra di Libia. Sappiamo solo per certo chi l´ha persa: in Libia, Gheddafi e i suoi; nella regione, noi italiani. Completamente spiazzati dalla mossa francese e britannica, disorientati dalle iniziali incertezze americane, abbiamo preso nel giro di un paio di mesi ogni posizione possibile. Per virare in cerca del vento migliore. Ma siamo stati una vela, non il timone. Sarà forse nel nostro Dna geopolitico, eppure anche la nostra seconda guerra di Libia – dopo la prima, cent´anni fa – non passerà alla storia come una gloriosa affermazione dei nostri interessi nazionali. L´Italietta postrisorgimentale si rivelò in Libia una potenza coloniale di cartapesta, perdendo d´un colpo simpatie e influenze nell´intero mondo levantino in cambio dello “scatolone di sabbia”, di cui ancora non conoscevamo a fondo le risorse. L´attuale Repubblica italiana non ha perso l´occasione, celebrando il centocinquantenario dell´indipendenza nazionale, di perdere ancora una volta la faccia. Forse vi siamo talmente abituati da non farci più caso.
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