Ceti medi senza volto, tentativo di un ritratto

SOCIETà€ «L’eclissi della borghesia»
Non sono immagini rassicuranti quelle che emergono dalle riflessioni che Giuseppe De Rita, presidente del Censis, e Antonio Galdo fanno in un volumetto, di cui si è già  parlato su queste pagine, dedicato all’Italia di oggi. Il libro, L’eclissi della borghesia (Laterza, pp. 92, euro 14) costituisce per più aspetti il seguito di quella Intervista sulla borghesia di una quindicina d’anni fa, quando i due autori già  denunciavano le peculiarità  dello sviluppo italiano, laddove all’ipertrofia di un ceto medio senza volto corrispondevano le deficienze della classe dirigente.

SOCIETà€ «L’eclissi della borghesia»
Non sono immagini rassicuranti quelle che emergono dalle riflessioni che Giuseppe De Rita, presidente del Censis, e Antonio Galdo fanno in un volumetto, di cui si è già  parlato su queste pagine, dedicato all’Italia di oggi. Il libro, L’eclissi della borghesia (Laterza, pp. 92, euro 14) costituisce per più aspetti il seguito di quella Intervista sulla borghesia di una quindicina d’anni fa, quando i due autori già  denunciavano le peculiarità  dello sviluppo italiano, laddove all’ipertrofia di un ceto medio senza volto corrispondevano le deficienze della classe dirigente. Le amare considerazioni di allora si sono rafforzate per arrivare a una diagnosi di medio periodo dove al pessimismo sembra subentrare il timore della irrecuperabilità. De Rita ci ha già abituato alle sue ricognizioni sulla società italiana, accompagnate da diagnosi dal taglio immaginifico e di grande fortuna, anche mediatica.
A leggere quest’ultimo pamphlet, si ha l’impressione che la crisi italiana sia a un punto di non ritorno. Quello che traspare dal testo è il nesso che esisterebbe tra la mancanza di una borghesia cosciente di sé e il difetto di modernizzazione del «sistema paese». Vecchia questione, che rimanda ai nodi dell’unificazione – nodi ai quali, ci accorgiamo adesso, rischiamo di rimanere strangolati, in presenza di una crisi sistemica e sistematica dell’economia internazionale che pone a durissima torsione il senso stesso dello stare insieme nel nostro paese. Eppure il limite della lettura di De Rita è l’inevitabile eccesso semplificatorio, ovvero l’attenzione, tutta sociologica, per un aspetto delle nostre difficoltà su cui si può assentire, senza però che si colgano anche gli altri elementi di un quadro complesso qual è quello italiano.
L’Italia dello sviluppo senza progresso è la risultante di un modello di falsa evoluzione che rivela con drastica dirompenza quello che Carlo Donolo, nel suo L’Italia sperduta (Donzelli 2011), definisce come il «defezionismo». Non un’antropologia negativa ma uno stato delle cose che trae la sua origine dal processo storico, laddove si ha a che fare con un atteggiamento trasversale alle classi e ai ceti ma che trova nella condotta della borghesia post-unitaria il suo cardine più legittimante.
La fragilità della costituzione statale si è incontrata con la refrattarietà ad assumere una leadership che andasse oltre il parassitismo dettato dalle circostanze. A mancare in Italia, allora, è quanto Carlo Galli già andava identificando come il ruolo delle élite intermedie pubbliche, la cui trasposizione nell’operato dello Stato crea quel patriottismo repubblicano, che non è categoria di valore astratto ma il senso del riconoscimento reciproco. Non è questione di sola borghesia ma di quale borghesia, in altre parole.
Il ceto medio, nella sua banalizzazione della quotidianità, non è una creazione degli ultimi decenni ma il portato di una unificazione incompiuta ancorché autoritaria, che trova nel fascismo il suo vero suggello subculturale. L’Italia di Crispi, Cadorna e poi dell’8 settembre, in buona sostanza, con l’intermezzo sansepolcrista. Il ventennio berlusconiano, effetto e non causa di quelle che sono state solo le sue premesse, ha capitalizzato le peculiarità negative di una comunità nazionale incapace di credere nelle proprie qualità e cinicamente ripiegata su di sé. Una comunità che guarda con diffidenza alla cosa pubblica, di cui fatica a tematizzare l’esistenza, in ciò ricambiata da una pubblica amministrazione che spesso non ragiona in termini di diritti ma di favori e sudditanze. Si obietterà che non tutto è così. Rimane il fatto che molto è tornato a rivestire tali panni e nulla può indurci a credere che le cose saranno in futuro meglio disposte, soprattutto dal momento che l’orizzonte è quello di una contrazione dei sistemi di welfare, a partire dalla rete delle autonomie locali, le uniche che in questi decenni repubblicani si sono sforzate di dare corpo a cittadinanze possibili e che ora si trovano in condizione di non riuscire più a garantire i servizi di prossimità, quelli che più e meglio di altri creano legami e appartenenze.
In realtà, chiedere a un volume quale quello di De Rita, di esercitarsi sui tanti aspetti di una stratificazione ingovernata, è forse troppo. Tuttavia gli autori, mentre fanno il computo delle responsabilità manifeste, a partire da quelle politiche, sembrano meno proclivi a cogliere quegli elementi di lungo periodo – come la supplenza volontaria di un cattolicesimo nella sua qualità di vera ideologia della nazione – che tanto hanno giocato nello sbocco attuale. De Rita non può agevolmente rivendicare il nesso profondo che intercorre tra la laicità delle istituzioni e l’emancipazione borghese, poiché se la seconda gli è chiara come urgenza storica la prima contrasta con la sua impostazione culturale. Ma oggi il rischio che l’Italia corre è che, nel tentativo di districarsi dalla falsa opzione tra populismo demagogico e tecnocrazia neoliberale, si consegni all’ethos di sempre, quello di un pensiero per il quale non ci si salva ma si deve essere salvati da una qualche provvidenza.

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