Vittorio Lingiardi, un’ironia aderente eppure laterale

POESIA Sono marini corpi amorosi, corpi franchi, luccicanti e millesimali, di scoglio e plancton – e corpi distrutti fino a confondersi all’essenza del legno della croce quelli che abitano le pagine di Vittorio Lingiardi (La confusione è precisa in amore, nottetempo, pp. 112, euro 7, lunedì 23 alle 19 la presentazione al teatrino Tor di Nona a Roma).

POESIA Sono marini corpi amorosi, corpi franchi, luccicanti e millesimali, di scoglio e plancton – e corpi distrutti fino a confondersi all’essenza del legno della croce quelli che abitano le pagine di Vittorio Lingiardi (La confusione è precisa in amore, nottetempo, pp. 112, euro 7, lunedì 23 alle 19 la presentazione al teatrino Tor di Nona a Roma). Questo poeta possiede il dono di una ironia così seria da essere liturgica, una posizione esistenziale paradossale, insieme aderentissima e laterale. Lingiardi manifesta infatti una leggerezza sabiana, marcata da alcune drammatiche striature rossosangue. Il suo sguardo già canoro fa alle volte una musica pura, di nitore petrarchesco, poi si china su certe macchie dolenti di nemmeno tanto cripto citazioni leopardiane.
Siamo nella piena coscienza della letteratura – ovvero della vita quando diventa infinita – e così, srotolando il suo filo di echi e passioni, eccoci – con i piedi e altre cose aeree – nella pozza corrosiva e ardente del Petrolio pasoliniano, che ha il suo culmine nelle dediche appaiate a Giovanni Forti e Giovanni Testori. Il primo, giornalista del «manifesto» e poi corrispondente da New York del settimanale «l’Espresso», fu tra i primi in Italia a esaminare sulla propria carne i geroglifici di chi è rimasto legato per eccesso di amorosa noncuranza alla cinghia mortale dell’Aids. Invitato nel febbraio del 1992 nella fruttuosissima scatola di quiete di Enzo Biagi, Giovanni Forti espose con commovente semplicità la propria persona ormai quasi finale su Rai 1, come un auspicio di prevenzione fatto tanto più vigoroso dalla sua estrema debolezza. La sua fine veniva pochi mesi dopo quella dell’invece riservatissimo Tondelli e precedette di un pugno d’anni quella del poeta Dario Bellezza. Creature sotto il comune denominatore del male e della sua trasformazione in un bene comune. Testori fu invece il geniale, multiliguistico e poliedrico autore che sappiamo, omosessuale cattolico erede dello spazio che fu di Pasolini sulle pagine del «Corriere della Sera».
La dedica di Lingiardi è una commossa riconsegna al cielo della sua voce. Dunque Petrarca, Leopardi, Saba, Pasolini, Testori – ma calati in un mondo contemporaneissimo, multietnico e divaricato verso civiltà rimaste apparentemente indietro lungo il corso della Storia Evidente, perché Lingiardi sa che il rovescio della nostra paura è la compassione; lo sa per mestiere – essendo psichiatra e psicoterapeuta – ma lo sa soprattutto come lo sanno i poeti. In un recente articolo sulla riproposizione di un Romanticismo letterale (e non letterario), Aurelio Picca scrive che «è bene osare dire che la povertà della passione (…)vince (…) soprattutto quando la crisi divora la cultura».
Questo bel libro di Lingiardi sembra parlare proprio dal basso profondo di questa vita essenziale, canta il canto delle cose, delle ossa, dello stato strutturale della radiazione umana, di una radicale povertà. Sappiamo inoltre di poter riconoscere la poesia dal fatto che ci lascia parlare, più che di sé, di altri e delle cose del mondo: il libro di Lingiardi è un ponte fermo e saldo dal quale è bello osservare la terra, pianeta fatto elettrico da tanta chiarità naturale, se noi pure portiamo il moto molecolare del plancton. Prima che il ramo tremi – vuoto di noi – ma al cielo.

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