UNA VITA GRATUITA DA TEOLOGO OPERAIO

«La resistenza per me è nel vivere, nel dare senso alla mia vita di prete e di uomo, e la gratuità  è un fatto di tradizione, nata con San Paolo e cancellata dal Concilio di Trento». Resistenza e gratuità  erano due parole chiave per Luisito Bianchi, morto ieri nel monastero benedettino di Viboldone, dove era cappellano da molto tempo vivendo con una pensione da lavoratore.

«La resistenza per me è nel vivere, nel dare senso alla mia vita di prete e di uomo, e la gratuità  è un fatto di tradizione, nata con San Paolo e cancellata dal Concilio di Trento». Resistenza e gratuità  erano due parole chiave per Luisito Bianchi, morto ieri nel monastero benedettino di Viboldone, dove era cappellano da molto tempo vivendo con una pensione da lavoratore. Prima ancora che un prete inquieto e un teologo eterodosso, don Luisito era una persona fuori dal comune che aveva vissuto un’esperienza di sacerdote non convenzionale sul modello di don Mazzolari e sotto la suggestione della lettura di Bernanos.
Nato da una famiglia contadina di Vescovato (Cremona) nel 1927, dopo il seminario e la laurea in Cattolica con Alberoni sui contadini della Val Padana, nel ’64 viene inviato sacerdote alle Acli di Roma, ma sente che l’incarico non fa per lui: non è a suo agio nelle vesti del sacerdote così come viene inteso dalla gerarchia ecclesiastica.
Nel ’68 è turnista alla Montedison di Spinetta Marengo (Alessandria). Comincia a riflettere sul potere e sulle ricchezze della Chiesa: «Non volevo essere pagato come sacerdote, perché l’annuncio del gratuito deve essere fatto gratuitamente: trovo scandaloso lo stipendio per i preti. Iniziai allora una ricerca sulle Scritture e sulla storia che mi portò a decidere di lavorare per guadagnarmi da vivere». Da allora non ha percepito una lira per svolgere il suo ministero, che intendeva come un dono gratuito ai poveri. Per sopravvivere ha preferito fare il benzinaio, poi l’inserviente in ospedale, poi ancora l’infermiere, l’insegnante, il traduttore. Al capezzale di sua madre, ammalata, comincia a scrivere pensieri, poesie, memorie dell’infanzia e dell’adolescenza. Ricorda soprattutto gli anni della Resistenza, ma la resistenza è un concetto che supera i limiti storici per farsi ideale di vita, legato alla gratuità: i partigiani sono combattenti che hanno versato il loro sangue gratuitamente per la libertà di tutti.
Ne nasce un romanzo-fiume, La messa dell’uomo disarmato, un libro sterminato di 1.500 pagine, che rimane nel cassetto perché nessun editore vuole pubblicarlo: troppo lungo, troppo complesso. Intanto escono saggi teologici (per Morcelliana Come un atomo sulla bilancia, 1972, Dialogo sulla gratuità, 1975, Gratuità tra cronaca e storia, 1982). Il libro viene stampato da amici nel 1989, poi ristampato. Arriva nelle mani del cardinal Martini, di Pertini, di Nilde Iotti. Nel 2003 Sironi decide di riproporlo, anzi di proporlo per la prima volta a livello nazionale. Romanzo è una definizione che semplifica la complessità e la coralità del libro: diario, narrazione pura, saggio, testimonianza diretta, autobiografia, invenzione. Un omaggio alla guerra antifascista combattuta nella Bassa Padana dopo l’8 settembre, con il novizio Franco che nella primavera del ’40 lascia il monastero per tornare nella cascina dei genitori, Rondine che muore ammazzato nei boschi di Bobbio, Balilla, Spartaco, Tano, tanti altri ragazzi e diversi monaci-partigiani.
Un po’ Meneghello (don Luisito diceva di pensare sempre in dialetto), un po’ Fenoglio per certi personaggi indimenticabili, un po’ Bacchelli per il respiro disteso del racconto, un po’ Attilio Bertolucci per gli ambienti. Un po’ di questi e d’altri, ma soprattutto la voce di un combattente felice e disarmato di cui ci ricorderemo.
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I funerali di don Luisito Bianchi si terranno domani, alle ore 11.30, presso l’Abbazia di Viboldone (Milano)

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